Nel mondo digitale la nozione di accessibilità viene continuamente riscritta e aggiornata. Grazie a Internet si sta facendo sempre più breve la distanza tra noi e una sempre maggiore quantità di contenuti e informazioni. Appena qualche click: un raro capolavoro del regista armeno Paradjanov così come le straordinarie foto che testimoniano una delle prime spedizioni in Antartide. Ma nell’era dell’abbondanza, se l’ostacolo dell’accessibilità si abbassa, un’altra barriera si innalza e rafforza – la barriera dell’attenzione.
Sono alcune idee che Maria Popova (la regina della content curation come giustamente l’ha definita Luisa Carrada) esprime da tempo, in particolare in un bellissimo articolo Accessibility vs. access: How the rhetoric of “rare” is changing in the age of information abundance pubblicato sul blog del mai troppo lodato Nieman journalism lab:
Il rapporto tra facilità di accesso e motivazione sembra essere inversamente proporzionale, così il solo fatto che un certo volume di informazioni sia facile da consultare e a nostra disposizione, ci paralizza sempre di più fino a farci accedere a tutto tranne a quello che realmente è più rilevante – rilevante per il modo in cui viene trattato dai media, rilevante per il modo in cui viene condiviso, rilevante per il modo nel quale risponde ai nostri concreti interessi.
È un po’ lo stesso principio per il quale – confesso – non visito da molto (troppo) tempo il museo della mia città. La sua pinacoteca possiede alcuni quadri meravigliosi (Vasari, Bronzino, e soprattuto uno splendido Pontormo) che non vedo da chissà quanto… Perché? Semplice, perché sono lì. Posso andarci (più o meno) quando voglio, semplicemente facendo una passeggiata di dieci minuti. Però, inevitabilmente, non ci andrò fino a quando qualcosa (o qualcuno) non darà un carattere di urgenza a questo mio desiderio: accompagnare degli amici che sono venuti a trovarmi, intervistare il direttore del museo, la lettura di un testo di storia dell’arte che fa scattare in me la necessità di vedere il particolare di un quadro che mai avevo notato.
Con le informazioni – dice la Popova – succede la stessa cosa: navigando online inciampo in un archivio di testi di uno degli scrittori che amo di più, oppure in un video che tratta di un argomento che interessa la mia professione – li salvo in qualche sistema di bookmarking (Delicious, Instapaper o qualche altro) e li spingo in qualche remoto angolo cognitivo, non concludo la mia esperienza di esplorazione e di apprendimento, perchè parto dal presupposto che sono lì, disponibili e accessibili in qualsiasi momento.
In questo contesto si inserisce la curatela dei contenuti (content curation se si vuole usare il termine inglese). Sul web se ne parla da tempo, ma proprio in questi mesi, mi pare, è diventato un tema sempre più dibattuto e approfondito nei suoi diversi aspetti e campi di azione (informazione, comunicazione, arte, marketing). Cosa fanno i curatori di contenuti? Segnalano, orientano “non si limitano a riportare informazioni, ma suggeriscono dei percorsi e dei nessi. Sono cercatori di conoscenza e battitori di piste”, come suggerisce in una bella e suggestiva definizione Maria Chiara Pievatolo, anche lei curatrice.
L’obiettivo è quindi dare al lettore contenuti che siano davvero rilevanti per i suoi interessi, non farlo annegare nel mare magnum delle miriadi di “cose” che popolano Internet, per portarlo dritto verso quello che più lo interessa, gli è utile. Più o meno recentemente sono nate proprio con questa finalità piattaforme come – cito le prime che mi vengono in mente - Paper.li, Scoop.it o Summify le quali come i motori di ricerca, Google per primo, utilizzano algoritmi che tengono conto di quanto un contenuto nella Rete sia stato condiviso dagli altri, il suo pagerank. La sfida - ricorda però Maria Popova – è oggi semmai quella di rivendicare un “fattore umano” nel processo di scelta, selezione, valorizzazione dei contenuti, per non far prevalere la sola logica del più popolare, per non cadere sotto la tirannia assoluta dell’equazione, più cliccato uguale più rilevante. Dunque sembra che nell’epoca dell’accessibilità e dell’abbondanza sia necessario riscrivere anche la nozione di “raro”. Sì perché riuscire a far emergere anche quei contenuti meno scontati (ai margini della nostra esperienza seppur accessibili), può essere la strada per attivare uno dei più potenti antidoti alla mancanza di motivazione: la curiosità. Intendiamoci, la curiosità non può essere imposta, ma possono essere creati i presupposti e il contesto affinché questa si metta in connessione con gli interessi del lettore:
Quello che i grandi curatori sanno fare è scomporre questa dinamica, facendo il percorso inverso, ovvero: definire per prima i contorni e la rilevanza culturale e poi stimolare e amplificare la nostra motivazione. Se qualcuno condivide con noi il link verso un prezioso e bellissimo manoscritto del 13esimo secolo potrà attrarre la nostra attenzione ma probabilmente in modo effimero. Sì certo può darsi che per un attimo ci fermeremo ad ammirarlo, forse. Ma qualcuno che condivide quel manoscritto, facendoci capire quanto ancora oggi possa raccontarci, quello che ancora oggi testimonia, aiuterà a integrarare quel pezzo d’archivio con la nostra conoscenza e con i nostri interessi, creando così un ponte tra la nostra curiosità e le nostre motivazioni per un più profondo e concreto rapporto con quel contenuto.
Fonti e approfondimenti:
Accessibility vs. access: How the rhetoric of “rare” is changing in the age of information abundance (Nieman Journalism Lab)
Brain Pickings (il blog di Maria Popova)
(a cura di) Luca de Biase