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Paywall, giornali e lettori (appunti sparsi)

Creato il 29 novembre 2013 da Leliosimi @leliosimi

paywallOpen journalism e paywall: li avevamo pensati come separati da una linea di demarcazione netta e definitiva. Da una parte il Guardian e gli altri sostenitori di un giornalismo “aperto” che gioca la sua scommessa puntando sulla cultura “open” e sull’idea di un web partecipato, dall’altra Murdoch e gli editori che per rimediare a quella che loro considerano la grande scelleratezza di Internet – i contenuti gratuiti per tutti – innalzano mura intorno ai propri giornali facendo entrare solo ed esclusivamente i lettori disposti a pagare.

Due strategie editoriali contrapposte e antitetiche. La trasformazione verso una nuova idea di giornalismo contro il vecchio modello di business portato a forza nell’era digitale. O da una parte o dall’altra. Però spesso le cose non sono mai così nette e definite.

Questo scenario è cominciato a cambiare già nel marzo del 2011 quando il New York Times ha adottato il suo paywall “poroso” (definito così perché dà al lettore la possibilità di accedere liberamente per un certo numero di articoli e quindi, in una certa misura, permette l’interazione e la condivisione attraverso i social). Una scelta molto criticata all’inizio ma che poi, risultati alla mano, ha convinto più di uno scettico. Quella del New York Times è stata insomma una sorta di terza via, una scelta che non ha frenato né l’engagement con il lettore né tanto meno lo sperimentare nuove idee.

Poi in queste settimane la notizia che John Paton ceo di Digital First Media, uno dei più convinti e agguerriti sostenitori del giornalismo aperto e delle politiche editoriali votate alla partecipazione dei lettori, ha deciso di adottare un paywall per tutte le sue testate (in totale 75 visto che il suo è uno dei gruppi editoriali più importanti degli Stati Uniti). Paton si è affrettato a precisare “gli abbonamenti digitali a pagamento non sono una strategia a lungo termine. Nella migliore delle ipotesi, sono una tattica di breve periodo” ma però “Abbiamo bisogno di più benzina nel serbatoio se vogliamo andare a completare questo nostro percorso di trasformazione da stampa a digitale”. Quindi secondo il management del network di quotidiani locali una tattica per arginare un periodo economicamente complicato per molti (e sicuramente anche per Digital First Media visto che già nel 2011 per un ramo significativo del gruppo, il Journal Register, si era dovuto dichiarare fallimento).

Un fatto è però che la percentuale di giornali che stanno adottando un qualche tipo di paywall è in aumento (oltre il 4o% negli Usa), e c’è chi è convinto che anche il baluardo dell’open journalism, il Guardian, farebbe bene ad utilizzarne uno al più presto: è di questa opinione un esperto del calibro di David Carr ad esempio (un opinione a dire il vero non condivisa da tutti, come dimostra la lunga discussione generata da questo tweet del direttore del Guardian Alan Rusbridger).

Both @kenauletta @carr2n praise the Guardian – but David C says now is the moment to start charging http://t.co/wOWcb1PSYj

— alan rusbridger (@arusbridger) October 6, 2013

Domanda: i “muri” sono solo una soluzione di emergenza sulla quale ripiegare obtorto collo in un periodo di recessione o ormai sono diventati una strategia – comunque la si pensi – da adottare comunque e al meglio? “Una strategia di abbonamento All-Access [la tipologia di paywall scelta da Digital First Media che permette al lettore di accedere a tutti i tipi di formati, carta compresa, con un unico abbonamento] è un’altra delle tante tattiche necessarie per questo necessario cammino di trasformazione. E, per essere sicuri, ci accingiamo a fare tutto quello che serve per far sì che la trasformazione avvenga” si legge ancora in un passaggio della lettera di Paton ai suoi redattori (pubblicata anche nel suo blog, The subscription project: an update).

Forse. Ma uno dei più attenti osservatori dell’evoluzione dei modelli di business dell’informazione come Ken Doctor (che sull’argomento sta scrivendo le cose più interessanti) non ha mancato di commentare: “Sì, i paywall sono solo una parte del nuovo modello di notizie che sta evolvendosi, ma una parte essenziale. Perfino il digital first John Paton è d’accordo”.

Oggi la prospettiva sembra cambiare nuovamente: i paywall (chiamiamo così qualsiasi forma di acquisto di contenuti digitali) non sono solo e semplicemente l’emblema di una vecchia cultura incapace di rinnovarsi. Ovviamente non stiamo parlando dei paywall “totali” (quello del Times londinese ad esempio e di altre testate di proprietà Murdoch dove se non paghi non vai oltre la home page) ma di una nuova generazione di paywall con approcci diversi che infatti molti già da un po’ di tempo chiamano paywall 2.0. Scrive ancora Doctor in un articolo per la sua rubrica Newsonomics:

«Se il 2011-13 sono stati gli anni del paywall 1.0, il 2.0 è adesso dietro l’angolo. Il New York Times lancerà in primavera nuovi prodotti digitali a pagamento, e altri grandi editori mi dicono che stanno preparandosi per mettere i loro più importanti prodotti a pagamento. Si estraggono ed elaborano i dati, si valuta la tipologia di consumatore e le sue preferenze, e si comincia a testare il prezzo. Se l’abbonamento di base funziona, ci saranno nuovi modi per vendere prodotti di nicchia così come le singole copie dei prodotti digitali. La differenziazione tra la prima generazione di paywall e quella nuova degli abbonamenti “All-Access” è l’elemento sul quale per il biennio 2014-16 tutti pronosticano maggiori revenue prodotte direttamente dai lettori. La grande domanda è: quanto di più?».

E sì, la grande domanda che si pone Ken Doctor sarà sicuramente una delle questioni da seguire per il prossimo anno: quanto per i giornali la quota di utili proveniente direttamente dai lettori potrà aumentare. In questo senso molto dipenderà da quanto i giornali, gli editori e le redazioni sapranno coinvolgere il lettore e fargli concretamente percepire valore aggiunto per quei contenuti. Altrimenti anche il paywall 2.0 sarà vissuto, sempre e comunque, come una barriera dalla quale tenersi a distanza. L’interazione con la community sarà anche sotto questo aspetto, fondamentale per far funzionare davvero questo tipo di finanziamento.

Ma è un fatto che la quota parte di revenue che proviene dagli utenti negli Stati Uniti sta aumentando. I numeri (la fonte è ancora Ken Doctor) dicono che i ricavi dei giornali sono per l’80% realizzati grazie agli inserzionisti e per il 20% grazie ai lettori (parliamo ovviamente sia di carta che di digitale), ma per la fine del 2013 questa seconda quota toccherà il 30%. Al New York Times il “peso” dei lettori nel fatturato ha già raggiunto il 56% ( solo dal digitale i nuovi lettori hanno portato 150 milioni di dollari ogni anno dall’adozione dei paywall) e c’è chi è convinto che entro il 2017 questa quota per molti altri grandi quotidiani americani potrebbe assestarsi intorno al 45% (non tutti possono essere il NYT, ovvio). Questo principalmente a causa della caduta libera degli investimenti pubblicitari, ma anche perché effettivamente queste nuove forme di abbonamento cominciano a funzionare.

Quindi vuol dire che i giornali grazie ai paywall saranno finanziati sempre più direttamente dagli utenti e sempre meno dai grandi investitori pubblicitari? Se così fosse un un bel po’ di cose potrebbero cambiare, come sostiene Ken Doctor facendo”pesare” di più i lettori e rendendo così le redazioni più indipendenti dai grandi inserzionisti. Almeno in teoria. Perché su questi aspetti ancora tutti navigano a vista e le variabili sono così tante da dover spesso rivedere molte previsioni.

“Un modello basato sui paywall può influenzare il tuo giornalismo”, ammonisce Mathew Ingram in un suo articolo commentando alcune scelte editoriali fatte dall’agenzia Bloomberg (pubblicare in Cina solo notizie finanziarie dopo che molti funzionari di quel paese hanno annullato abbonamenti per articoli politici poco graditi).

Ingram ha poi rilanciato la sua idea in un tweet: “Tesi: ciò che sta succedendo a Bloomberg è la logica conseguenza di un modello basato su paywall”. Pronta risposta di John Gapper del Financial Times: “Tesi interessante però la logica del free implica anche le logiche perverse dei contenuti supportati da click (e tutto quello che ne consegue)”.

@mathewi interesting thesis but it logically implies that free, click-supported content has its own perverse incentives (dumbing down etc)

— John Gapper (@johngapper) November 25, 2013

E già, perché il modello totalmente free non è solo quello ammirato da tutti del Guardian, ma anche quelli che prevedono enormi masse di contenuti buttati online solo per fare traffico, quelli della quantità prima della qualità: dei i blog messi lì dalle testate in quantità industriali solo per fare pageview, del gossip assunto a dignità di cronaca, dei colonnini morbosi eccetera, eccetera. E i paywall invece? I nuovi prodotti “premium” che molte grandi testate stanno progettando convinceranno i lettori a pagare per un giornalismo di qualità? Bella scommessa.

Insomma la logica “o da una parte o dall’altra” non ha più senso (se mai ne ha avuto uno). Il sistema non è “binario” ma vuole una serie di intersezioni e incroci. Così cercare un percorso “sostenibile” e realmente innovativo, in questo periodo di transizione da un modello a “qualcos’altro”, può voler dire essere capaci di far convivere elementi molto diversi e apparentemente antitetici. O se preferiamo dirla diversamente, essere capaci di qualche compromesso.

Bonus track: sul tema continuano a essere pubblicati articoli molto interessanti, ne segnalo due quello di Steve Outing che fa alcune ipotesi di possibili sviluppi futuri:Paywalls in my back yard: A forecast for newspaper business models Paga, poi leggi. Paywall a confronto dell’Osservatorio europeo sul giornalismo che fa un’utilissima classificazione delle molte tipologie dei sistemi di pagamento dei contenuti digitali fino ad oggi utilizzati.


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