Film eburneo ma solcato da venature tetrissime, funeree: l’ampiezza, la profondità (palcoscenici ideali per l’introduzione del titolo sullo schermo che appare in tutta la sua corpulenza, foto sotto) e in particolare la rarefazione urbana, neve neve neve e qualche casa, un bowling, un motel, con dentro qualche uomo, tracciano una fotografia apparentemente idilliaca; sulla carta questa sperduta landa canadese avrebbe la possibilità di farsi ovattato paradiso in terra, chiuso e purificato dai miasmi dello smog. In siffatti termini la pellicola di Denis Côté datata 2010 sarebbe stata valida al massimo per qualche trasmissione televisiva, sicché il regista instilla gocce di inchiostro sempre più dense: la partenza soft vede un padre che vieta alla figlia di andare a scuola, e non solo: in casa non esiste la tv, l’unica catarsi permessa alla piccola è quella di abbozzare improbabili balletti sulle note di canzoni disco-dance. Sempre più dense, e ancora di più: il procedimento attraverso cui Côté svela gli orrori (e sono davvero tali) disseminati in questo paesino non fa una grinza che sia una, con un gelo pari a quello che caratterizza il luogo, apre nell’ordinarietà esistenziale squarci d’abisso, fenditure che fanno tremare, ma Côté è bravo a non enfatizzare il singolo evento preferendo illustrare la reazione della singola persona di fronte a tali “imprevisti”, ed è qui che il film rivela il suo intrigante nucleo: raccontare nel modo più distaccato possibile, quasi fosse una ricerca etologica, il rapportarsi tra uomo/ambiente, uomo/figlia, uomo/umanità mentre tutto intorno accadono fatti inquietanti. Negate tutte le strade interpretative (esultiamo per l’assenza di quell’abusata psicologia bignamesca nelle vesti di “spiegazione del disturbo”), delle cause si può anche fare a meno (possibilmente: una madre in prigione, è lì e basta), mentre gli effetti dirompono tacitamente nel tessuto esistenziale, ne diventano parte, con grande sgomento spettatoriale, tramite una mimesi non dissimile alla neve che coprendo tutto rende difficile capire chi è vivo e chi non lo è. Non si tratta perciò di un’indagine mentale con intenti eziologici, è più drasticamente un incidere su pellicola la naturalità (!) degli accadimenti che non ha logica (una tigre?) ma è e basta: le cose succedono e i vari personaggi con una lucidità annichilente controbattono alla variazione, chi infischiandosene (un lago di sangue in una stanza del motel, che sarà mai?), chi rimanendone ammaliati (la morte come comun denominatore della propria vita), chi perseguendo un’inintelligibile condotta (la folle protezione paterna obnubila la ragione).
Il film di Côté si aggira con disinteresse tra i paesaggi imbiancati e (r)accogliendo quanto esposto sopra non si dimentica di caratterizzare un personaggio come Jean-Francois capace di suscitare emozioni più lontane, tanto che da una presa di distanza nei confronti della sua morale aberrante, si passa ad una sottaciuta compassione generata dal suo misero status: un padre incapace di fuggire, un povero cristo a cui restano solo timidi sogni e un po’ di amore preconfezionato. Côté non molla il suo cinismo nemmeno alla fine in cui mostra con noncurante implacabilità come Jean-Francois ha risolto i suoi problemi: impossibilitato a cambiare il mondo intorno a sé, cambia se stesso, almeno esternamente.
