La potestà fiscale dello stato è infinita? O esiste invece un limite oggettivo oltre il quale la voracità statale non può spingersi?All’angoscioso quesito ha risposto Arthur Laffer, un economista americano. I presupposti del suo discorso sono molto semplici. Primo, se le aliquote d’imposta fossero uguali a zero, anche il prelievo sarebbe uguale a zero. Impossibile dargli torto, d’altronde. Lo zero per cento di qualunque grandezza corrisponde a zero, è matematico. Secondo, la stessa cosa succederebbe però anche se le aliquote raggiungessero il cento per cento. Nessuno sarebbe infatti più disposto a lavorare, e dunque a produrre, se l’intero reddito gli venisse prelevato dallo stato.Se ne deduce che, tra zero e cento, esiste un livello massimo di pressione tributaria oltre il quale il gettito erariale comincia a scendere, fino ad annullarsi quando la pressione tocca il cento per cento del reddito nazionale, che in fin dei conti rappresenta per lo stato la base imponibile.Tale relazione tra pressione e gettito può essere raffigurata graficamente per mezzo di una curva parabolica, nota appunto come curva di Laffer. Disgraziatamente la forma esatta della parabola, ossia il punto esatto dove le entrate fiscali raggiungono il massimo e poi, all’aumento delle aliquote, cominciano a ridursi, rimane sconosciuto. Quel limite lo si può stabilire a priori solo in via ipotetica, a meno che l’esperienza concreta non ce lo sbatta in faccia, come sta avvenendo oggi.Non vi è alcun dubbio che l’incentivo a evadere e a eludere le imposte cresce con il crescere del loro numero e delle loro aliquote. In Italia, stando a quanto indicato dalla corte dei conti, l’imponibile sottratto al fisco ammonta ogni anno a circa centottanta miliardi. L’azione di contrasto operata dagli uffici erariali e dalla polizia tributaria può sì recuperare una parte più o meno consistente delle somme evase, ma mai tutte.Vi è inoltre un altro aspetto da considerare. Taluni contribuenti, anziché mettersi contro la legge, possono decidere di andare a investire e produrre all’estero, dove le tasse sono molto più basse. Tale fenomeno sempre più frequente viene definito delocalizzazione. Le fabbriche chiudono da noi e aprono i battenti altrove.Risultato? Troppe imposte provocano prima una contrazione del reddito nazionale e poi un calo delle entrate tributarie. E dobbiamo riconoscere con obiettività che la repubblica italiana questo bel capolavoro è riuscita di recente a realizzarlo. A partire dal 2011, a furia d’introdurre nuove imposte e innalzare le aliquote di quelle già esistenti, il reddito nazionale si è contratto, finché non ci si è infilati nella pericolosa curva di Laffer. Non per niente le entrate tributarie dei primi otto mesi del 2014 sono diminuite dello 0,4% rispetto a quelle incassate nello stesso periodo dell’anno precedente.I grandi statisti che ci governano hanno così dimostrato d’essere sordi agli insegnamenti di un celebre imperatore romano, da tutti conosciuto con il vezzeggiativo di Caligola, le cui raffinate concezioni di scienza delle finanze le riassumeva in poche parole:«Il popolo è una pecora. Lo puoi tosare ogni anno ma scuoiare una volta sola. Il mio gregge preferisco tosarlo, non scuoiarlo».
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