Antonio Conte
di Antonio Conte – Non credo di essere un utente esperto, e tuttavia erogo corsi da esperto, ma molti pensano – credo proprio che ne siano convinti – che io lo sia, dicono anche che sono molto avanti rispetto a loro e che io abbia delle competenze inedite, comunque invidiabili nel settore informatico, alcuni in particolare specificano nell’uso dei social network. Io non sono, però d’accordo, nonostante mi sia impegnato negli ultimi 10 anni almeno nel convincerli proprio di questo.
La verità è che ogni giorno mi scopro indietro, mi accorgo di competenze molto più raffinate di alcuni miei colleghi nelle aree del design digitale per esempio o nella gestione digitale delle foto, ma anche (soprattutto per le finalità argomentative di questo articolo) nel settore delle reti e delle infrastrutture. Quest’ultimo tema non mi attira molto, mi incuriosisce però il contenuto che ci viaggia dentro ed l’approccio psicologico dell’utente. Per esempio segnalo a proposito l’articolo che propongo di seguito del Corriere della Sera e scritto da Federica Cocco, che trovo quanto meno geniale ed illuminante (leggilo dopo, è in fondo alla pagina).
Le implicazioni che emergono sono davvero sconcertanti. Negli ultimi mesi tutti i giornali a stampa, pubblicano i twitt di uomini politici italiani o la loro relazione con i social media. Dagli assessori e sindaci a parlamentari e ministri, non mancano sindacalisti che cercano visibilità in rete grazie ai social network salvo poi dare la colpa ai figli se beccati da attenti giornalisti, a fare dichiarazioni scomode. Dal loro canto il giornalisti stanno imparando a seguire le dinamiche di costruzione del consenso ed a segnalare i politici in cerca di notorietà a buon mercato tra le pieghe della rete. Nei social network non è previsto il pagamento della pubblicità elettorale, credo finora. Ma di questo ne parleremo più avanti. A proposito si possono segnalare alcuni recenti articoli. Il primo è di Alessandra Modica del 01 mar, 2012 dal titolo “Social network: quando il follower è un fantasma“, che mette in dubbio le modalità su come i politici italiani possano avere tanti follower o fan. Il secondo articolo di opinione diversa Gabriella Colarusso, pubblicato su Lettera43 Martedì, 03 Aprile 2012, in un’intervista a Michele Sorice, docente di comunicazione politica e nuovi media alla Luiss, costruisce in “Social Media, Twitter fa democrazia. Sorice: «Cinguettii dei politici, vantaggio per gli elettori»“, una visione più etica dei social media in politica da parte dei politici. Ed ancora la prestigiosa testata “Il Post” con un redazionale del 21 settembre 2011, dal titolo “La pubblicità dei politici su Twitter” ci notifica che il popolare social media da 140 caratteri, nel novembre scorso, con l’avvio delle presidenziali statunitensi, sta sperimentando la presenza a pagamento di 5 tra i candidati. Secondo il Secolo d’italia invece con l’artico del 18 marzo 2012 avvisa che “il Politico deve studiare meglio le dinamiche delle comunità online“. Per finire sarei propenso a ben considerare la posizione di FERPI espressa il 7 marzo 2012 nell’articolo ”Elezioni.it: quando la politica si fa social“. Una delle principali tendenze del web è di essere semantico, per facilitare le ricerche e questo comporta una elevata specializzazione nella creazione delle pagine e nella fornitura di servizi, per cui mi pare di concordare con la tendenza che alcuni “social network” possano diviene o presentarsi con un certo vantaggio in modo settoriale come dei “political network“.Ma la questione che si impianta con il tema portante di questo testo ed indicato nel titolo è che tutto questo sia messo in pericolo con i robot cloni, la cosa non sarebbe indifferente per l’elettore. Ma non è tutto. Pensiamo a quanto accaduto in Egitto in piazza Tahrir, in cui si dice che la gente si sia radunata grazie al passaparola ma soprattutto ai social network. Proprio un paio di giorni fa pubblicavo un articolo sul fenomeno dei slacktivist, sul blog di Titel, una società di formazione online, in cui si faceva notare che un minimo impegno potesse generare delle vere e proprie ole di consenso. Se tutto ciò, i robot intendo, è utilizzato in politica, in finanza e nelle cause a carattere religiose o a loro relative, magari in sintonia con vere e proprie campagne strategiche di comunicazione di massa come quella descritta da Soeren Kern nel suo articolo “Germania/ Un corano in ogni casa” gli effetti possono davvero essere imprevedibili.
Per alcune considerazioni su implicazioni sui mercati finanziari (il tranding online, per intenderci) si rimanda al seguente articolo. Ma la domanda che inquieta è: “Chi produce e chi usa i robot?”.
Antonio Conte
Intelligenza artificiale
Salve, sono un (ro)bot: un falso utente
Il 50% del traffico online nasce da programmi automatici, l’autore di un twitt su 4 non è una persona fisica. Il caso delle elezioni presidenziali iraniane e di quelle russe.
Il Corriere.it – «Probabilmente troverete ridicolo che io sia in guerra con il mio alter ego in versione robotica. La verità è che non so come fare per liberarmene». Chi parla non è Rick Deckard di Blade Runner, bensì Jon Ronson, ideatore di Esc & Ctrl — la miniserie di documentari in onda sul sito del «Guardian» — che è di recente entrato in polemica con gli ideatori di Weavr. Weavr non è altro che un software, inventato dalla Philter Phactory, in grado di creare un bot (abbreviazione di robot), ovvero un programma che simula l’esistenza di una persona online.
Circa un mese fa, Jon Ronson si è ritrovato «faccia a faccia» su Twitter con il suo alter ego virtuale, @jon_ronson, un bot satirico, creato daWeavr in riposta ad un episodio di Esc & Ctrl nel quale il giornalista ridicolizzava le pretese di chi crea agenti virtuali. Infastidito dalla presenza ingombrante del clone, Jon Ronson ha invitato a partecipare al programma tre membri della Philter Phactory: Dan O’Hara, Luke Robert Mason e David Bausola e ha chiesto loro l’eliminazione di @jon_ronson.
Nel corso di un acceso confronto tra Ronson e i suoi antagonisti, questi gli hanno raccontato come è avvenuta la creazione del bot: «Abbiamo estrapolato le informazioni dalla tua pagina di Wikipedia. Il bot opera automaticamente le associazioni». Ronson: «Non capisco. @jon_ronson fa commenti stupidi su cosa sta mangiando. L’altro giorno ha twittato che stava riflettendo sul tempo e sull’uccello». Bausola: «E allora? A te non capita mai di pensare al tempo e al tuo uccello?». Ronson non l’ha presa bene e insieme a lui molti altri hanno criticato la Philter Phactory via mail o Twitter.
«Troviamo curioso che Ronson si senta minacciato da dei banali algoritmi, o infomorfi», come amano definirli gli accademici. «In realtà, l’infomorfo non si impossessa dell’identità altrui, bensì capta i dati dai vari social media e li rielabora secondo i canoni dell’estetica infomorfica».
Dopo molte insistenze, O’Hara, Mason e Bausola hanno rivelato le loro vere motivazioni. I bot fungono da specchio per le allodole: «Vogliamo far conoscere alla gente il ruolo e il potere degli algoritmi. Le nostre risorse finanziarie a Wall Street sono in mano agli algoritmi. La crisi economica è anche colpa loro. Se l’unico modo per farlo capire è creare dei bot rompiscatole, ben venga».
«Troviamo curioso che Ronson si senta disturbato più dai banali tweet del suo clone digitale, invece che dalle pesanti ripercussioni provocate dai bot sull’economia del nostro Paese. Mentre un bot può essere eliminato, questi ultimi no».
Ciò che dunque spaventa seriamente gli autori della Philter Phactory sono l’ubiquità e il potere dei bot. Hanno ragione?
Diamo un’occhiata a questi dati. L’autore di un tweet su quattro non è un essere umano, è un bot. Il 70% del trading effettuato a Wall Street avviene attraverso programmi automatici, mentre il 24% del trading azionario in Inghilterra è effettuato da algoritmi. Il 50% del traffico web è generato da programmi automatici. Infine, tra i 30 editori di Wikipedia più attivi, ben 22 sono bot.
@JamesMTitus è neozelandese, vive a Christchurch, è appassionato di surf e ama i gatti, specialmente il suo gatto Benson. Adora fare tante domande, ma quando sono gli altri a fargliele rimane sul vago: «Interessante, dimmi di più» è una delle sue risposte preconfezionate. Ebbene, @JamesMTitus è diventato famoso dopo aver vinto la gara dei SocialBots promossa dal Web Ecology Project, gruppo di ricerca con sede a Boston, per essere risultato il bot più credibile.
Hanno partecipato tre diverse squadre attratte dal bando («Aiutate i robot a prendere il controllo del web»), dal premio di 500 dollari e dalla promessa di fama nel circolo della scienza sociale e dell’analisi dei network. Nel giro di sole due settimane il vincitore dell’esperimento ha avuto quasi 200 interazioni (tra retweet e risposte) e ha ottenuto ben 108 followers.
Gli ideatori della Philter Phactory promuovono i weavr come piattaforma per lo storytelling, motore di ricerca, e efficace strumento di marketing. Senza ombra di dubbio si tratta di un fondamentale esperimento nella scienza dell’intelligenza artificiale.
Una volta creati, i weavr hanno una vita propria. Sono in grado di utilizzare qualsiasi piattaforma con una Api (interfaccia di programmazione) come Twitter o Flickr, per tenere aggiornato il loro blog.
I due principali pionieri della cosiddetta «architettura sociale» sono proprio la Philter Phactory e il Web Ecology Project, un laboratorio indipendente di ricerca sulla cultura online che dal 2009 ha avviato uno studio sul se e come sia possibile infiltrare i social network ed avere un’influenza sulle masse. In particolare, lo studio si è concentrato sull’attività registrata su Twitter nel corso delle proteste in Iran durante le elezioni presidenziali del 2009. Ebbene, i ricercatori hanno realizzato che tra gli utenti Twitter, pochissimi di loro erano effettivamente manifestanti iraniani. A guidare il dibattito erano in gran parte web-celebrità occidentali. Il Web Ecology Project ha così osservato come online una minoranza di persone riesce ad avere un impatto incredibile.
All’interno di una comunità il ruolo di un leader è quello di facilitare le relazioni tra gli individui. Per i bot è semplice ricreare questo ruolo: connettere esseri umani con altri individui con gli stessi interessi.
«Ma come è facile per i bot creare relazioni tra diverse persone, ugualmente è facile per loro distruggerle», spiega Tim Hwang, ricercatore e portavoce del Web Ecology Project. «Abbiamo visto questo tipo di operazioni per le elezioni in Russia e le proteste in Siria. Il governo di Mosca ha liberato nell’arena web una serie di bot pro-Putin che incoraggiava gli utenti ad andare a votare. I bot siriani tendevano a dissuadere gli utenti dal partecipare alle proteste contro il regime di Assad». «I bot ricoprono un ruolo anche nella politica occidentale. Sono cruciali per creare influenza, per far apparire un individuo più potente online di quanto lo sia in realtà. Da poco si è scoperto chemolti dei follower del candidato statunitense alle presidenziali, Newt Gingrich, erano account falsi».
Tim Hwang sostiene che siamo ancora in una fase embrionale: «Per ora abbiamo sperimentato solo su gruppi di massimo 500 persone. In futuro abbiamo in programma esperimenti su più di 100mila persone. Ultimamente non sono più riuscito a distinguere i bot creati da me dagli esseri umani».
Grazie ai software di intelligenza artificialeWeavr, estrarre i dati da una pagina di Wikipedia e creare il bot basato su un personaggio storico o famoso è un gioco da ragazzi. Questo non è che uno tra gli utilizzi più innocui.
C’è infatti chi ha scelto di sperimentare le implicazioni sulla letteratura, come il progetto Maschmischine che utilizza il software della Philter Phactory per ricreare i personaggi di Alice nel paese delle meraviglie, trasponendoli a Berlino.
Sta inoltre emergendo il fenomeno di utenti veri che fingono di essere bot. O’Hara e i suoi colleghi l’hanno sperimentato sulla loro pelle dopo l’apparizione al programma Esc & Ctrl, quando una serie di individui hanno creato account su Twitter fingendo di essere loro cloni virtuali, come @jon_ronson lo era per il vero Jon Ronson.
«Persone che fingono di essere bot: questo è un segno che sta avvenendo un cambiamento della politica dell’identità online», hanno commentato amaramente O’Hara e Robert Mason in un editoriale sul «Guardian».
Twitter @federicacocco
Federica Cocco