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D'EntroTerra

Creato il 14 febbraio 2014 da Stupefatti
D'EntroTerraD'EntroTerraOrograficamente parlando, mi diceva sempre un ex vicino di casa che un tempo aveva la faccia tumefatta, la Sicilia è un casino. È come una pagina di quaderno accartocciata che tanto tempo addietro qualcuno ha tirato verso il cestino sbagliando il bersaglio. Ora se ne sta ancora lì, contro ogni logica, sul pavimento, tutta accartocciata, ed è passato tanto di quel tempo che adesso addirittura ci abita dentro qualche milione di persone – pensa te – e mai nessuno che viene a prenderla e la butta finalmente nel cestino, come sarebbe giusto. Io allora gli dicevo che esagerava e che la Sicilia non è tutta da buttare. Lui sorrideva e mi diceva ogni volta la stessa cosa. Pensala come vuoi ma per me la Sicilia è tutta munnizza. Tale iperbole era giustificata dal fatto che l’ex vicino di casa in questione è uno di quelli che ha sempre voluto scappare e non c’è mai riuscito, che mille volte ha sbattuto il grugno contro le sbarre dello Stretto di Messina tanto che la sua faccia – a furia di sbattere contro le sbarre – era tutta ferite, graffi e ammaccature. Comunque sia, aveva ragione quando diceva che orograficamente la Sicilia è un casino. In effetti è tutta particolare, tutta tensioni e fratture, scontri violenti di masse rocciose, dirupi scoscesi, vegetazione furba, infida, con la lingua biforcuta, punte ruvide e aguzze, spine e rovi attorcigliati di un attorcigliamento tale che non lascia respiro, e un carattere che generalmente è ostile (all’uomo) e selvaggio (per l’uomo). Di tutta questa zavorra metaforica cercavo di sbarazzarmi mentre visitavo i paesini dell’entroterra siciliano, quelli dove l’aria è tersa e cristallina e il mare non si vede neanche all’orizzonte – cosa inaudita per me che abito in un rilassato posto costiero dove l’aria è grossa e sporca di salsedine. Posti dove la popolazione ha l’accento più forte, le mani più grosse e il naso più pronunciato; dove l’agricoltura e la pastorizia e qualche attività commerciale e chi può va a vivere in città; dove l’età media si alza anno dopo anno, e rimangono solo i vecchi; dove – si dice – la ristrettezza della mentalità è direttamente proporzionale alla ristrettezza delle cifre demografiche e al numero di km di distanza dalla città più vicina; dove si fanno gran belle feste del santo patrono, pantagrueliche, roboanti e cuccagnesche, dove Ecco il Paganesimo di cui Tutti siamo Intrisi, dove puoi intuire qualcosa di quella gravida umida grossa radice dell’albero su cui siamo tutti nostro malgrado abbarbicati; dove le stradine sono tutte stupendamente e orribilmente ripide e tortuose, tutte salite rompicalcagni e discese rompicollo, dove gli anziani camminano con il busto perfettamente parallelo al suolo inclinato e dove le donne hanno i polpacci grossi e muscolosi, venuti così a furia di salire e scendere salire e scendere salire e scendere, Dio Mio, Mai Un Passo Senza Sforzo, Mai un Attimo di Relax, un Momento di Abbandono. Posti che lasciano stupefatti per la loro lontananza fisica, concettuale ed estetica rispetto al mondo-come-lo-pensiamo-sempre, posti che ti danno la controparte ruvida e terrosa di un modello di vivere globalizzato di cui è una vita che ci iniettiamo endovena l’ambizione e la speranza. Come sarebbe vivere qui? Com’è vivere qui? Lo chiedo all’ex vicino di casa che un tempo aveva la faccia tumefatta. Grazie per essermi venuto a trovare, mi risponde lui, non mi capita spesso di ricevere persone.
Foto di Marina De Santis

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