L’haiku è una forma poetica giapponese, che conobbe grande sviluppo nel cosiddetto “periodo Edo” (1603-1867), composta di tre versi e diciassette sillabe, e contraddistinta da un notevole rigore, sia formale sia contenutistico, che prescrive, oltre alla lunghezza dei versi, di cinque, sette e ancora cinque sillabe, anche lo sviluppo tematico, legato solitamente alla descrizione dell’attimo presente e a un immancabile riferimento “stagionale”.
Nella forte tensione del Web alla creazione di “manuali”, peraltro, qualcuno ha descritto i passi necessari per diventare uno scrittore di haiku.
«The New York Times», su questa scorta, ha deciso di lanciare, da qualche tempo, un’iniziativa particolare: trasformare i propri articoli in haiku. Un team ha utilizzato un algoritmo che fa uno scanning degli articoli e ne tira fuori componimenti haiku. Il tutto è ospitato da una sorta di pagina Tumblr, nella quale ogni giorno vengono pubblicati almeno tre “haiku”.
Com’era ovvio, delle prescrizioni di scrittura rimane non rimane moltissimo, ma la forma viene rispettata. Alcuni tra i più recenti componimenti sono però davvero gustosi: «One day, while taking / some film to be developed, / he heard something new.» e «If I think I have / a good idea, I just / cant’t help sharing it.» sono due tra i tanti possibili esempi.
Capiamo bene che dietro a questa iniziativa non ci può essere un vero intento poetico. Cosa sia, poi, scrivere poesia, tanto nella forma dell’haiku quanto in altre forme, è argomento di un dibattito senza soluzione di continuità.
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