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Ieri gli Indignados sono arrivati a Bruxelles. La gioia istintiva e un certo grado di commozione per il loro arrivo colorato al parc Elisabeth hanno lasciato spazio, come sempre, ad una riflessione più articolata. Da che parte stiamo? Da che parte sto io, da che parte stanno i miei colleghi, i miei compagni di università, di Master?
Da un lato c'è simpatia, e a volte desiderio, di unirsi a questo gruppo di manifestanti che hanno il coraggio di urlare e non si vergognano di non avere la soluzione in tasca. Tutti vorremmo urlare che ne abbiamo le palle piene di questa precarietà, che anche quando non è oggettiva - perché abbiamo un buon lavoro e un buon contratto - rimane nell'aria creando un sottile senso di inquietudine che ci accompagna costantemente. Abbiamo i nervi a pezzi a forza di leggere ogni giorno notizie catastrofiche su rating declassati, banche che falliscono, istituzioni europee in affanno.
Dall'altro lato, mentre con una mano sosteniamo le ragioni della protesta, con l'altra inviamo curriculum alle stesse grandi corporation che proclamiamo essere la causa di tutti i mali. E ci andiamo a lavorare. E vendiamo loro il cervello, in un micidiale patto col diavolo. E soffochiamo con imbarazzo quel rutto di protesta che renderebbe tutti un po' indignados.
Perché con una mano, protestiamo contro le élite (il famoso 1% di Occupy Wall Street), ma con l'altra, speriamo in maniera più o meno confessabile che ci sia ancora un posticino anche per noi, tra quelle élite. Noi che abbiamo tanto studiato, che ci siamo tanto impegnati. Ce lo meritiamo, di entrare nel giro e chiudere la porta ai nostri compagni indignados, magari dicendo mi spiace ragazzi, è la meritocrazia.
Difficile, difficile trovare coerenza. Che fare, non lavorare più? Fare lo sciopero dello stipendio? Difficile conciliare il sacrosanto diritto a cercare di costruirsi una sicurezza personale, e la consapevolezza di essere un pezzetto dell'ingranaggio che alimenta la stessa macchina che ci sta stritolando.
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