- Da Komikazen 2011: il fumetto politico di Seth Tobocman
Anche quest’anno abbiamo deciso di riservare un occhio di riguardo al Komikazen, il festiva del “fumetto di realtà” di Ravenna, che già seguimmo con un corposo speciale nel 2010. Abbiamo intervistato alcuni degli ospiti protagonisti di questa edizione, per farli conoscere a chi non potrà essere presente questa settimana all’evento principale, che prosegue fino al 13 novembre, ricordando che le mostre rimarranno visitabili fino al 27 gennaio 2012.
Primo appuntamento con l’artista-attivista Seth Tobocman.
Cominciamo con una cosa facile facile: quando hai iniziato a disegnare? Hai conosciuto e lavorato con importanti autori della scena underground. Cito solo i più noti in Italia come Harvey Pekar, Peter Kuper, Ben Katchor e Eric Drooker. Puoi raccontarci qualcosa sul rapporto che hai avuto con questi fumettisti? Cosa ti hanno insegnato?> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="302" width="230" alt="Da Komikazen 2011: il fumetto politico di Seth Tobocman >> LoSpazioBianco" class="alignleft" /> Il tuo stile è stato anche fortemente influenzato dai graffiti. In che modo? Perché non sei diventato un graffitista? I tuoi fumetti sono fin da subito molto legati all’impegno politico. Pensi che il fumetto sia un modo per raggiungere politicamente più persone o è soltanto il tuo modo? Gli anni ‘80 in America sono stati un periodo molto prolifico per le riviste a fumetti, anche per quelle politicamente impegnate. Puoi raccontarmi qualcosa della nascita di World War III? Pensi che abbia in qualche modo influenzato la percezione dei vostri lettori dei problemi sociali e politici del periodo?> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="300" width="237" alt="Da Komikazen 2011: il fumetto politico di Seth Tobocman >> LoSpazioBianco" class="alignright" /> Per te la politica è sempre impegno in prima persona: dalla partecipazione al movimento squatter degli anni ‘80, al recente viaggio in Palestina per insegnare arte e inglese ai bambini. Il tuo ultimo lavoro è un’analisi delle cause e degli effetti della crisi economica negli Stati Uniti. Cosa pensi di movimenti come “Occupy Wall Street” o “We are 99%”? Credi possano influire sulla situazione attuale, e in che modo? Chi sono i tuoi lettori? A chi ti rivolgi? Ti poni mai il problema di arrivare a chi non ti conosce o non la pensa come te? Se non sbaglio tu hai anche insegnato fumetto: è davvero possibile insegnare questo medium come forma artistica? > LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="277" width="182" alt="Da Komikazen 2011: il fumetto politico di Seth Tobocman >> LoSpazioBianco" class="alignleft" />E ora la domanda più difficile. Che futuro pensi che possa avere il fumetto come forma artistica? Riferimenti: > LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="220" width="346" alt="Da Komikazen 2011: il fumetto politico di Seth Tobocman >> LoSpazioBianco" class="aligncenter" /> Note:
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Ho iniziato a disegnare da piccolissimo. In realtà, una maestra dell’asilo mi disse che i miei disegni erano orrendi, cosa che mi fece pensare che disegnare era una cosa davvero importante e che avrei dovuto imparare a farlo. Quando andavo all’asilo, con la mia famiglia passammo un anno all’estero: non capivo niente di quello che diceva la gente e passavo tutto il tempo a disegnare. Tornato negli Stati Uniti era la cosa che sapevo fare meglio e così quando scoprii, un paio di anni più tardi, i fumetti della Marvel e che il nome del disegnatore compariva sulla prima pagina, pensai: “Wow, disegnare fumetti è un lavoro. Ecco cosa farò da grande!”.
Mio zio parlava della pressione che si subisce in certe famiglie nell’entrare in campi professionali dove si fanno davvero i soldi, come Legge o Medicina. Una pressione a cui lui aveva ceduto mentre io, invece, ho resistito.
La parola “artista” ha una gran serie di connotazioni culturali: ciò che intendeva lui con “artista”, che è la stessa cosa che intendo io, è qualcuno la cui professione è disegnare. E sì, cerco di esserlo.
Da ragazzo i supereroi erano gente reale per me: seguivo le loro storie ed ero triste se qualcuno di loro moriva. Poi a un certo punto ho notato che le trame si ripetevano continuamente. Seguivano sempre lo stesso copione e quindi persi interesse. A quei tempi la scena del fumetto alternativo americano non esisteva, così mi spostai in altre aree: il cinema, il rock, l’arte. Intorno ai vent’anni capii che quello che dovevo fare erano i fumetti. Quindi cercai di inventarmi un “nuovo tipo” di fumetto che per il me adulto potesse essere altrettanto reale come i supereroi per il me bambino.
È difficile per le persone oggi capire quanto fosse minuscolo il mondo del fumetto negli anni Settanta. Essendo una coppia di adolescenti che pubblicavano una fanzine a fumetti, Peter Kuper e io conoscevamo tutti quelli che facevano fumetto a Cleveland. Il club del fumetto che frequentavamo comprendeva ragazzini neri che venivano da Shaker Heights [1] e ragazzini bianchi poveri i cui padri lavoravano nelle acciaierie. Ma non lo notavamo mai perché parlavamo soltanto di fumetti.
Conoscemmo anche uno scontroso collezionista di fumetti e dischi di nome Harvey Pekar. Mi spaventava perché sembrava sempre depresso, se non sul punto del suicidio, e prendeva continuamente pillole. Ma poi Harvey cominc iò a fare fumetti realistici sulla sua vita. Non lo faceva nessuno allora e penso che sia stato un vero spartiacque. Penso che questa idea abbia cambiato, non solo i miei fumetti, ma quelli di tutti quanti.
Io e Peter Kuper abbiamo lavorato assieme per tutta la vita. Abbiamo caratteri diversi, ma in qualche modo riusciamo a capirci bene. Il suo controllo tecnico è impressionante, lavora davvero duro ed è un vero professionista: un modello per me e molte altre persone da questo punto di vista. Realizza sempre un prodotto finito bellissimo, anche sui taccuini.
Eric Drooker l’ho conosciuto quando avevo vent’anni, vivevo a Lower East Side a Manhattan, ed ero molto coinvolto nel movimento sulle politiche abitative. Andavamo a riunioni e manifestazioni assieme. Eravamo un gruppo di graffitisti io, Eric, Paula Hewitt, Chuck Sperry e Josh Whalen. Stampavamo manifesti e stencil contro la brutalità della polizia, la gentrificazione della zona e per sostenere il movimento degli squatter. Da Eric e Paula ho imparato a collegare i grandi temi internazionali, come la guerra e l’imperialismo, a temi locali come l’abitazione, le droghe e l’economia. Penso che il libro di Eric Flood [3] sia uno dei più importanti fumetti della mia generazione.
In generale, come editor di World War III, incontro costantemente nuovi fumettisti, e anche attivisti che vogliono esprimere le loro idee, e imparo un sacco da loro. In un certo senso, il movimento è stato la mia università.
Abbiamo fatto moltissima street art negli anni Ottanta ma molto meno dopo che il sindaco Giuliani ha cominciato con le sue politiche repressive.
Affiggere i miei lavori per strada mi ha insegnato a rendere le mie opere chiare e semplici, perché dovevano essere comprese da persone che ci passavano accanto e anche poiché là fuori sarebbero state presto danneggiate: sarebbero state leggibili anche con il fango schizzato sopra?
Mi piaceva l’idea delle figure prive di facce portata avanti da Keith Haring, Richard Hambleton e dai Sandinisti [4] .
Generalmente parto da uno schizzo veloce poi lo espando in un disegno più grande. Inizio con la matita o con della grafite e finisco con qualche altro strumento.
Oggi cerco di essere più realistico. Quindi posso anche fare schizzi partendo da una situazione reale o tenendo un modello come riferimento.
Penso che per la gente sia naturale fare arte sulle cose che per loro contano: a me interessa la politica quindi faccio arte politica. Sarà la storia a giudicare se è il modo migliore per far circolare il messaggio.
Negli anni Ottanta c’erano forse quattro riviste a fumetti che erano dirette a un pubblico di adulti: American Splendor di Harvey Pekar, Raw di Spiegelman, Picture Story di Ben Katchor e il nostro World War 3 Illustrated [5] . Cominciammo con la nostra rivista perché senza di lei non ci sarebbero stati luoghi dove pubblicare fumetti politici.
Ci furono una serie di eventi che ci convinsero a cominciare una rivista politica: i tumulti in seguito all’assassinio del politico gay Harvey Milk, detti White Night Riots [6] , l’incidente alla centrale nucleare sulla Three Mile Island [7] e il posizionamento di armi nucleari statunitensi in Europa. Ma il più significativo fu la crisi degli ostaggi in Iran [8] o più precisamente la reazione americana a quella crisi. Per dire: entravo nel supermercato dov’ero andato per tutta la mia vita e vendevano queste spille gigantesche con su scritto “Fuck Iran”. E le vendevano alle stesse persone che mi avrebbero preso a schiaffi se da bambino avessi solo pronunciato la parola “fuck”! Quindi pensammo: “se questa gente può esprimersi liberamente, possiamo farlo anche noi: mettiamoci a fare una rivista di politica a fumetti”.
Quando iniziammo, il nostro punto di vista era piuttosto liberal, del tipo “non ci piace Reagan”. Ma incominciare a stampare la rivista fu un po’ come alzare uno striscione. Diverse persone erano attratte da quello striscione e piano piano incominciarono a insegnarci e spiegarci diverse cose; la rivista diventò così la voce di una comunità ristretta, ma molto attiva, di anarchici degli Stati Uniti.
Direi che i nostri lettori ci hanno influenzato tanto quanto noi abbiamo influenzato loro.
Di solito sono i piccoli dettagli a far partire la mia immaginazione. Tipo, quando ero a New Orleans la gente cominciò a segnalarmi il fatto che gli elicotteri, che giravano sopra la nostra testa, erano utilizzati da agenzie immobiliari per dei tour organizzati e a me venne immediatamente da pensare agli avvoltoi. Ed ecco il gancio per tenere insieme le mie impressioni sulla ricostruzione post uragano Katrina. Successivamente ho dovuto comunque approfondire l’idea facendo ricerche, quindi ho fatto schizzi e foto, infine, di nuovo a New York, mi sono messo addirittura a studiare gli avvoltoi dello zoo del Bronx.
In alcuni casi effettuo anche interviste o qualche altro genere di ricerca utile al mio libro: dipende tutto dal soggetto anche se in generale mi piace sapere di cosa sto parlando prima di mettermi a disegnare sul serio.
Durante gli ultimi trent’anni il capitalismo ha trattato l’economia americana nello stesso modo in cui un eroinomane tratta le sue vene: cercando di spremere fino all’ultimo dollaro senza nessuna preoccupazione per il futuro. L’attuale collasso economico ne è una conseguenza.
Ho iniziato a lavorare a Understanding the crash dopo aver fatto ritorno nel 2008 alla mia città natale, Cleveland, e aver visto le case sbarrate con le assi.
“Occupy Wall Street” è solo l’ultima espressione di un movimento contro le grandi banche, iniziato nel 2007, durante il quale gruppi locali protestavano contro il pignoramento delle case. In seguito si unirono i sindacati che protestavano contro il licenziamento dei lavoratori. Ma “Occupy Wall Street” ha cambiato il movimento: ha portato i giovani, la controcultura, i senza tetto e una varietà di tattiche avventurose da cui una organizzazione di lavoratori o un grande sindacato si sarebbero tenuti lontani. Penso che questa sia un’ottima escalation, necessaria. Finora l’opinione pubblica americana ha supportato “Occupy Wall Street” come non le ho mai visto fare con la sinistra. Quindi penso che l’idea del 99% (unire i poveri, il proletariato, la classe media, gli studenti e la controcultura) contro l’1% che controlla il sistema, stia funzionando. Cosa che mi dà speranza.
Be’… non scegli i tuoi lettori, sono loro a sceglierti. Riguardo i miei, penso siano persone molto intelligenti e molto impegnate. Quando incontro un fan, scopro spesso che s’impegna in prima persona in qualcosa d’interessante, tipo pubblicare fanzine, girare film o gestendo attività per la sua comunità. Sono molto contento del sostegno che ricevo da questo genere di persone.
È davvero strano insegnare a scuola, quando io per primo non l’ho mai finita perché tutti i miei insegnanti sembravano odiare il fumetto. In realtà insegno fumetto alla School of Visual Arts di New York dagli anni Cinquanta, come anche Steve Ditko, l’inventore di Spiderman. Insegnare mi dà modo di interagire con i giovani al di fuori degli incontri alle manifestazioni.
L’industria editoriale del fumetto, come quella della musica ma come l’editoria in genere, sta facendo fatica a fare soldi a causa di interent. Ma c’è una differenza: i fumetti sono molto popolari ora come ora. Per diverse generazioni, sono stati in una posizione strana: c’era l’industria che pagava bene gli artisti, ma rubava la loro proprietà intellettuale e vietava loro di fare cose per i bambini, mentre gli artisti si lamentavano perché volevano che i fumetti fossero trattati come “forma artistica”. Be’, attenzione a cosa desiderate, perché sta succedendo: i fumetti diventeranno presto più una forma artistica che una professione e questo significa che qualche artista riuscirà a viverci, ma molti altri faranno fatica.Quando insegno nelle classi di fumetto, scopro che metà dei miei studenti sono ragazze, cosa impensabile vent’anni fa. è anche la prima generazione di fumettisti che non fanno esperienza del medium come di una specie di stigma. Possono lavorare su qualsiasi argomento, e se fanno un lavoro serio, il mondo li prenderà in serissima considerazione.
Il fumetto come forma artistica è in ascesa, ma essere un artista non è mai stato facile.
Seth Tobocman: www.sethtobocman.com
Komikazen 2011: www.komikazenfestival.org
Speciale Komikazen 2010: www.lospaziobianco.it/19312-KOMIKAZEN-fumetto-confini-realta
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