Un’affermazione, sia cinica sia fuorviante, sta attualmente circolando all’interno dell’Unione Europea: “il multiculturalismo è morto in Europa”. Non c’è da meravigliarsi se il conglomerato di Stati-Nazione/UE ha silenziosamente trasmesso uno dei suoi dibattiti più importanti – quello dell’identità europea – ai partiti, un processo recentemente seguito da diverse azioni selettive e contro-producenti in politica estera.
La coesione interna dell’Europa, la sua fondamentale ridefinizione, così come la pubblica reputazione globale e la credibilità entro il proprio vicinato strategico risiedono nel rilancio dei suoi poteri di cambiamento del tipo tutto tranne le istituzioni – come stipulato con il Processo di Barcellona della Politica Europea di Vicinato e con la collaborazione euro-mediterranea (OSCE).
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Mettendo in relazione gli idrocarburi con l’attuale panorama politico e socio-economico, lo studioso Larry Diamond ha dimostrato che, al momento, ventidue Stati nel mondo, che guadagnano il 60% (se non di più) del proprio PIL grazie al petrolio (e al gas naturale), sono allo stesso tempo regimi non democratici e autoritari. Tutti questi Stati presentano enormi disparità, importanti falle socio-economiche, nette diseguaglianze politiche e segregazioni di lunga durata, senza dimenticare una scarsa osservanza dei diritti umani. Tali Stati rappresentano circa la metà dei Paesi considerati “non liberi” dalle relazioni annuali della Freedom House – gli stessi che sono generalmente ritenuti, dai media occidentali, responsabili di rivolte interne e regionali, di conflitti armati internazionali e carestie, rei di offrire rifugio e finanziamenti ai terroristi. Quindi, ben nove degli undici principali esportatori di greggio vengono solitamente etichettati dal mondo accademico di spicco come dittature e/o monarchie dispotiche. Il professor Diamond la chiama recessione democratica. Se così fosse, non ci sarebbe alcun indicatore economico o politico nella regione MENA (Medio Oriente-Nord Africa) che implichi alcuna delle “Primavere” recentemente verificatesi, ma solo una grave e duratura recessione.
Per la verità la storia moderna è ricca di esempi dove lo sviluppo dei Paesi esportatori di greggio è stato intralciato dagli enormi ricavi. Troppo spesso il flusso monetario portato dal petrolio non ha aiutato, ma ha anzi posticipato o sviato, una necessaria diversificazione economica e una riforma politica. Inoltre, questo ha di frequente aperto la strada alle élite, percepite in ambito interno come dei predatori e in ambito internazionale come – per usare il gergo della CIA – degli “utili idioti”. Sebbene sia conveniente utilizzare gli introiti per effettuare acquisti oppure per sovvenzionare la pace sociale, questi regimi (di Stati redditieri) stavano/stanno creando in realtà una trappola contro se stessi – una dipendenza psicologica e politica dagli idrocarburi sempre più marcata. Quindi, una reale “Primavera Araba”, per il Medio Oriente e per noi, richiederà esclusivamente lo sdoppiamento e la diversificazione in ambito socio-economico, l’uniformazione socio-politica, con un determinante distacco psicologico e un allontanamento dalla dipendenza dal petrolio. Mai ciò potrebbe verificarsi per un cambiamento solo cosmetico di colui che alloggia nel palazzo presidenziale.
Temendo il pan-arabismo repubblicano di sinistra e il nasserismo, gli Stati Uniti hanno esortato l’Arabia Saudita a istituire una nuova grande rete di madrasah e a promuovere quelle già esistenti, in tutto il Medio Oriente – come ci ricorda il professor Cleveland nella sua opera più importante: A History of the Modern Middle East. Nelle ultime tre decadi, questa tigre è diventata “troppo grande da cavalcare”, come sottolinea Lawrence Wright nel suo celebre libro su al-Qaeda: The Looming Tower. Wright afferma che, pur rappresentando solamente l’1,5% dei musulmani del mondo, i sauditi finanziano e sostanzialmente controllano circa il 90% delle istituzioni islamiche, dagli Stati Uniti al Kazakistan/Sinkiang e dalla Norvegia all’Australia1. Insistendo sulle semplicistiche, rigide e faziose interpretazioni wahhabite-salafite dei testi religiosi, molte di queste istituzioni insieme ai loro chierici indottrinati, in realtà stanno compromettendo e impedendo un importante dibattito interno riguardo l’Islam e la modernità2.
Trattenuti nel limbo della negazione, essi mantengono ampiamente (e volutamente) il mondo arabo e il mondo musulmano non arabo su una pericolosa rotta di scontro col resto del mondo3. Per finire, all’interno dell’Unione Europea sta attualmente circolando una voce, scettica e sviante, secondo la quale: “il multiculturalismo è morto in Europa”. Il tipo di Islam che l’Unione Europea ha supportato (e gli strumenti impiegati per farlo) nel Medio Oriente di ieri, è più o meno l’Islam (e i mezzi che utilizza) che l’Europa cerca di comprendere oggi.
Perché e come?
Alle giovani generazioni europee viene spiegata a scuola l’esistenza di una unità compatta (singolarità) di un’entità chiamata Unione Europea. Tuttavia, appena sorgono seri problemi di sicurezza esterna o interna, riemergono nuovamente le parti che compongono la vera e storica Europa. Prima in Algeria, Egitto e Libano, poi in Iraq (ad eccezione della Francia) e ora in Libia e in Siria. L’Europa centrale esita ad agire, l’Europa atlantica è impaziente, quella scandinava è assente, l’Europa orientale sta salendo sul carro del vincitore e i territori europei russofoni sono contrari.
Il bombardamento anglo-americano della Libia nel 1986, guidato da Reagan, fu una singola azione punitiva per tenere la Libia sotto controllo. Questa volta, alla Libia (e adesso anche alla Siria) è stata data un’altra connessione: la considerevole presenza della Cina nei territori africani; gli accordi conclusi dalla Russia e dalla Germania per evitare determinati gasdotti (accordi che priveranno l’Europa orientale di ogni sovrapprezzo nelle trattative legate al transito e che tacitamente eserciteranno una reale pressione congiunta da parte russo-tedesca nei confronti dei Paesi Baltici, della Polonia e dell’Ucraina); la sfrontatezza iraniana4 (dovuta ad un’emancipazione petrolifero-finanziaria e strategica); infine, le deposizioni dei regimi filo-europei, vale a dire quello tunisino, quello yemenita e quello egiziano che, combinate tra loro, devono aver innescato un campanello d’allarme in tutta l’Europa atlantica5.
Così, in risposta alla crisi nella regione MENA, l’Unione Europea non è riuscita a mantenere un’agenda ampia e ben strutturata né una base di partecipazione collettiva con i suoi vicini strategici, nonostante possedesse le istituzioni, l’interesse e la credibilità per farlo – come fece in precedenza in ambito interno; ha trasmesso in silenzio una delle sue questioni principali, quella dell’identità europea, a un’anti-politica d’evasione (politica in ritirata) edulcorata all’interno dei partiti politici dell’Europa occidentale. Alla fine, l’Europa ha messo a repentaglio le proprie visioni e non ha rispettato il proprio principio di trasformazione del potere. Essa è andata indebolendo la propria struttura istituzionale con il Processo di Barcellona, visto come il segmento dedicato alla Politica Europea di Vicinato (UE), e con la collaborazione euro-mediterranea (OSCE)6.
L’unico coinvolgimento diretto del continente era compreso tra una delegittimazione diplomatica e un impegno militare punitivo attraverso una coalizione dei volenterosi (Libia, Siria) guidata dall’Europa atlantica. La nostalgia dello scontro ha prevalso ancora una volta sul dialogo (gli strumenti) e sul consenso (le istituzioni).
Le conseguenze sono impressionanti: il tipo di Islam che l’Unione Europea ha supportato (e gli strumenti impiegati per farlo) nel Medio Oriente di ieri, è più o meno l’Islam (e i mezzi che utilizza) che l’Europa cerca di comprendere oggi. Non c’è da meravigliarsi, che l’Islam in Turchia7 (o in Kirghizistan e in Indonesia) sia diffuso, liberale e tollerante, mentre quello nel Nord Europa sia duramente sprezzante, limitato e vendicativamente assertivo.
(Traduzione dall’inglese di Stefano Contini)