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Da Muscat a Tehran sull’Air Arabia Tra Kefiah e Chador

Creato il 28 gennaio 2013 da Sunday @EliSundayAnne

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Sono all’aeroporto internazionale di Muscat. In anticipo. Senza bagaglio. Ovvero, solo con uno zaino come bagaglio a mano. Ho finalmente imparato a gestire le mie valigie in maniera intelligente? Assolutamente no: non avevo nulla da portare. Il motivo? Mi sto recando in Iran, dove la temperatura prevista all’arrivo è – 2 gradi centigradi e io non ho un solo vestito invernale da mettermi, essendo che il mio progetto iniziale prevedeva un intero anno sabbatico in Cambogia. Mai fidarsi dei propri piani.

La mia ricerca di indumenti caldi, a Muscat, è stata un’impresa. Nel più grande centro commerciale di Muscat, il City Center (si trova in periferia), la merce esposta da H&M, Zara e Promod costavano il doppio rispetto ai loro corrispettivi europei, e con la sezione di indumenti invernali ridotti al minimo: con 25 gradi d’inverno e quasi 50 d’estate, l’Oman non è propriamente il luogo in cui darsi allo shopping da montagna. Mi è però andata bene perchè siamo in inverno, e sono dunque riuscita a trovare due paia di calze di lana e acrilico (che pungono), una spessa sciarpa di acrilico (carissima) e una simpatica maglia di lana blu lunga alle ginocchia taglia XS (la mia), che però mi deforma tutta e sembro un’anfora modellata da un vasaio con l’artrite. Per la cronaca, ho optato per le calze pungenti perchè erano le meno care: le altre costavano dai 14 euro in su per un paio di calzettoni che dai nostri cinesi pagheremmo due euro.

Eccomi quindi felice all’aeroporto, abbardata da Babbo Natale perchè nello zaino non stava niente e quindi sono vestita a strati, con lo sciarpone che pende da un lato e le calze pungenti ai piedi, infilati nelle Converse: tanto negli aeroporti fa sempre un freddo polare, no? No: a Muscat l’aria condizionata è stranamente spenta. E in pochi minuti mi trasformo in un palombaro imprigionato nel deserto (e senza possibilità di liberarsi dello scafandro).

Non mi resta che distrarmi osservando l’umanità che mi passa accanto, che rivela indumenti interessanti: a seconda della destinazione, le sale d’aspetto mostrano donne in tuniche e foulard neri che lasciano scoperti solo gli occhi o nemmeno quelli, donne col foulard colorato sui capelli e tunica nera scintillante (abaya), indiani con la tunica di cotone sui pantaloni in tinta, donne in sari colorati e bindi tra le sopracciglia, uomini arabi dalle tuniche bianche, nere o marroni e dai copricapi diversi a seconda della nazionalità: un pezzo di stoffa rosso e bianco (kefiah), oppure solamente bianco e fermato dall’agal, un cordone nero che in origine era una briglia per cammelli. Gli abitanti del Qatar si riconoscono perchè indossano copricapi che si rifanno molto allo stile africano, con due lunghe “code” che ricadono sulla schiena, e terminano in un fiocco nero che mi ricorda quello dei nostri tendoni da salotto anni sessanta. E ovviamente turbanti omaniti, con gli immancabili occhi penetranti a completare il quadretto.

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Come tutti gli aeroporti del mondo, anche quello di Muscat svela alcune peculiarità dei suoi abitanti: se nello Sri Lanka mi avevano accolta preziosi negozi di tè dall’aria invitante e librerie buddhiste per curare l’anima, qui abbondano i negozi di profumi d’élite, abaya e incensi (da cui chi entra non può che uscirne poco dopo lasciando l’ormai conosciuta nonchè chilometrica scia), e l’immancabile caffetteria Costa, in cui un panino lo fanno pagare quanto le calze di lana a Muscat. E non è nemmeno buono. Concedersi una pausa da Costa costa: infatti ne sto alla larga.

La prima tratta del mio viaggio mi porta da Muscat a Sharjah (pron. Sciàrgia), elegante città degli Emirati Arabi Uniti, con un volo della Air Arabia a basso costo (ho fatto il biglietto direttamente sul sito della compagnia). In volo mi lascio sorprendere da una serie di episodi interessanti, il primo dei quali fa sorridere tutti: la spiegazione delle norme di comportamento dei passeggeri non viene effettuato dalle hostess, bensì proiettato su piccoli schermi installati a intervalli tra i sedili. E fin qui tutto normale, non fosse che gli attori sono tutti bambini, e con la loro vocina illustrano, una bambina in arabo e un bambino in inglese, come allacciare le cinture di sicurezza, sistemarsi la maschera dell’ossigeno e spegnere i cellulari. Nel filmato sono tutti bambini, dalla hostess allo steward ai passeggeri (e anche i piloti), e rendono la spiegazione piacevole e divertente. Completa il quadretto una musichetta allegra in sottofondo da scuola dell’infanzia: un bel modo per catturare l’attenzione dei passeggeri, altrimenti distratti dai loro cellulari.

Il secondo episodio interessante avviene un minuto prima del decollo, quando cala il silenzio e una voce pre-registrata recita una preghiera ad Allah affinchè protegga il nostro volo. Il mio vicino, un omanita sulla sessantina, sgrana un rosario islamico con serena devozione, e al termine della preghiera sorride alla vista della mia espressione sorpresa: sono rimasta a bocca aperta.

Il personale di volo è gentile e disponibile, ma risoluto quando si tratta di rimproverare i tanti indiani e pachistani che continuano a parlare al telefono e mandare messaggi nonostante l’aereo sia già lanciato sulla pista. Uno di questi ha riattaccato solamente sotto minaccia, e con un sorriso sulla faccia da schiaffi che mi ha fatta ammirare l’aplomb della hostess: al suo posto, quel cellulare gliel’avrei tirato sulla testa.

Sembra di stare sul (fu) Albanian Airlines che mi ha portata per anni da Torino a Tirana: niente lusso, ma la gente è disponibile e cordiale, ha voglia di parlare e se la guardi risponde con un sorriso. Qui però è diverso: gli iraniani mi guardano loro per primi, e tutti, soprattutto le donne e le ragazze, mi sorridono, e mi sento accolta dall’Iran prima ancora di arrivare.

La signora accanto a me, nel volo da Sharjah e Tehran, poco dopo il decollo comincia a leggere da un libretto dei versetti del corano, come leggeva mia nonna, cioè sussurrando le frasi facendole fischiare tra le labbra, per comprenderle meglio.  La figlia della signora mi offre il suo aiuto a Tehran in caso di bisogno, e mi lascia il suo numero di cellulare. La madre mi offre invece una fetta di una mela tagliata in quattro parti che custodisce nella borsa dentro un tovagliolo, che condividiamo tutte e tre in un simpatico banchetto in volo. Poi la ragazza si addormenta con la testa appoggiata sul tavolino, e la mamma la segue poco dopo. Mamma e figlia sono le due donne in chador ritratte nella foto in alto.

Sulla rivista della compagnia aerea leggo un articolo interessante, che propone una breve scheda di diverse città consigliate per le prossime vacanze. Mi soffermo subito su Torino (la mia città), e scoppio a ridere quando leggo che a Torino si parla Italian and Piedmontese. Forse il giornalista avrà fatto visita a qualche famiglia di campagna, dove il piemontese viene ancora parlato, ma mi stupisce che invece riporti, per le città di Milano e Bologna, solo la lingua italiana: forse è stato una volta in Piemonte e, chiedendo indicazioni in inglese, gli hanno risposto in piemontese.

E’ ora di atterrare. La temperatura in loco annunciata dal pilota è di 12 gradi: mi è andata bene (per il momento). I motori si spengono, i cellulari si accendono e le donne tirano fuori i foulard dalle borse: è ora di coprirsi il capo. Frugo nella borsa e tiro fuori il mio, acquistato per l’occasione in un banchetto all’interno di una stazione del metrò di Kuala Lumpur. Lo sistemo sui capelli imitando le altre, indosso una maglia lunga e sono pronta per l’Iran, sperando che mi facciano il visto. Domani vi racconterò com’è andata.


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