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Da Stato industriale a Stato casaro?

Creato il 08 settembre 2010 da Zfrantziscu
Nella lettera a un giornale, un gruppo di familiari di pastori di Ittiri ha scritto: “pensiamo che lo Stato debba intervenire con il tassativo impedimento della chiusura delle fabbriche, e per quanto ci riguarda non deve permettere che siano gli industriali a fare il buono ed il cattivo tempo delle produzioni e della commercializzazione del formaggio”. Questa accorata difesa del posto di lavoro e di produzione è, nella sua linearità, lo specchio riflettente della cultura assistenziale che ha dominato la Sardegna, quale che ne sia stato il governo. Una Sardegna sognata, ma anche promessa, come fuori del mercato, indipendentemente dalle regole di cui esso ha bisogno per non trasformare una società in una giungla.
L'industria di Stato in cui il posto di lavoro fosse indipendente dalla produzione, una agricoltura e una pastorizia fatta di stipendiati di stato che interviene sul mercato non per regolarlo, ma per impedire agli industriali di produrre quel che il mercato richiede. Se una produzione non rende o, come per la chimica, è in crisi forse irreversibile, pazienza: ci pensa lo stato. È con questo paracadute (fatto di premi e di ammassi e di poltrona mancanza di innovazione), che gli industriali privati o cooperatori si sono abbandonati al pecorino romano che – cifre di stamattina – ad ottobre giacerà invenduto per 60 milioni di quintali: 35 quintali per sardo residente. Tanto c'è lo Stato o la Regione.
Se i comuni e le asl sarde prescrivono nelle diete alimentari delle mense per bambini e anziani che “il formaggio da condimento deve essere parmigiano reggiano” (Comune di Orotelli) e che (Comune di Orosei) nella scuola primaria si consumi “mozzarella, ricotta, cacciocavallo, fontina, parmigiano reggiano, grana padano”, che importa: ci penserà lo Stato a pagare il formaggio sardo non consumato dai futuri cittadini sardi. Avendo tempo e voglia di sfogliare le prescrizioni di asl e comuni, temo che questi due casi non risulteranno unici. E che la denuncia fatta dall'assessore dell'agricoltura Prato (in torto in gran parte delle sue iniziative, ma non in quella di consigliare il consumo dei prodotti sardi) sia più fondata di quanto si pensi.
C'è stata una dura polemica fra Prato e il sindaco di Orotelli, il primo denunciando come in un paese di pastori e contadini fin dalle scuole si abituino i bambini a non consumare quanto producono i padri, il secondo togliendo la scusa che si era trattato di una svista e di una vecchia tabella. Che infatti ora è cambiata, prevedendo mozzarella di provenienza sarda, provolette sarde, dolce di Macomer. Ma anche gruviera, fontina e che il condimento debba essere rigorosamente “parmigiano reggiano”. Un po' di solidarietà con i casari emiliani, che diamine.
C'è sempre in agguato il rischio di un sogno autarchico, da scongiurare come la peste. Ma in una terra che importa prezzemolo, limoni, acqua minerale (e non solo, come è ovvio, camembert e papaia) l'autoconsumo e l'autoproduzione sono precondizioni per un minimo di sviluppo con speranza di sviluppo. Ci vuole, certo, una politica agricola e pastorale come mai l'abbiamo avuta, affascinati dalle sirene dell'industrializzazione e del turismo portatori di occupazione purché sia. Ma ci vuole anche, e forse soprattutto, una ribellione corale all'assistenzialismo (nella pastorizia come nell'industria) che ha corrotto talmente le nostre coscienze da farci pensare che “tanto c'è lo Stato”. O la Regione, che poco cambia. Se poi, dato che siamo in ribellione, ci occupassimo anche della cultura alimentare nostra e dei nostri figli, mica faremmo male.

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