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Da Tahrir a Taksim: il carosello delle rivolte nella periferia mediterranea

Creato il 10 giugno 2013 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Da Tahrir a Taksim: il carosello delle rivolte nella periferia mediterranea

Il cerchio sembra essersi chiuso. I tumulti sono arrivati in Turchia: proprio in quella Turchia che era stata indicata come il modello d’islamismo – moderato, democratico e sunnita – per i nuovi regimi arabi post-rivoluzionari. Proprio in quella Turchia che a molti osservatori era apparsa come il principale precursore e nel contempo vincitore delle rivolte arabe. Gli eventi degli ultimi mesi rivelano come tutti i paesi e le forze autoctone coinvolte siano state in realtà più oggetto che soggetto del subbuglio regionale, e che – almeno per il momento – nessuno nel Mediterraneo possa rivendicare la qualifica di vincitore delle rivolte.

Tale non era la percezione del caso turco, fino almeno all’inizio del 2012. In tutto il mondo arabo stavano avanzando forze politiche ideologicamente vicine al AKP al potere a Ankara: in Egitto e Tunisia, in particolare, erano giunte al governo vincendo chiaramente le elezioni. Il primo ministro turco Erdoğan avviava un tour in quei paesi in cui le rivolte avevano avuto successo, ricevendo ovunque accoglienze trionfali e vantaggiosi accordi economici per il suo paese. Quando la rivolta esplose nella vicina Siria, Erdoğan nel giro di poche settimane scaricò il presidente al-ʾAsad e si presentò come principale sostenitore dell’opposizione, che sembrava in grado di rovesciare il regime con la stessa rapidità con cui era avvenuto in Egitto o Tunisia.

A distanza d’un paio d’anni da quegli eventi, la situazione appare meno rosea per Ankara. I rapporti coi governi post-rivoluzionari del Nordafrica sono eccellenti, ma non sembra essersi per ora creato un chiaro e ferreo asse politico con la Turchia al suo centro. In Siria il regime si è dimostrato molto più resiliente del previsto e, dopo una fiera resistenza, proprio in questi giorni sta conducendo una serie di offensive che potrebbero rivelarsi decisive. Al contrario, la zona di confine turca appare destabilizzata, per il traffico di armi e armati alla frontiera e il riacutizzarsi della riottosità curda favorita proprio dall’autonomia de facto che i Curdi hanno ottenuto in Siria. Infine, sommosse massicce e violente sono esplose a Istanbul, per poi allargarsi a numerose città turche, nel migliore dei casi danneggiando l’immagine democratica della Turchia nel mondo, nel peggiore minacciando la sopravvivenza del governo e della convivenza civile nel paese anatolico.

In realtà, già nel “trionfale” 2011 la condotta turca era apparsa molto legata alla contingenza degli eventi e dipendente da variabili su cui non aveva controllo. Ankara non aveva previsto né sobillato le rivolte: fino al giorno prima l’inizio dei disordini intrattiene ottimi rapporti coi governi in carica. Quando la rivolta esplode in Libia, inizialmente Erdoğan – che ha un buon rapporto anche con al-Qaddāfī e probabilmente ne coglie il carattere di lotta tribale più che di rivoluzione di popolo – è cauto, apparentemente più favorevole al governo che ai ribelli. Le cose cambiano quando Gran Bretagna e Francia imprimono un’accelerata, superando l’ostilità tedesca e la titubanza statunitense e tirandosi dietro anche l’Italia, in uno dei nostri tanti voltafaccia diplomatici. Il regime tripolitano stava vincendo i ribelli cirenaici, finché il conflitto rimaneva interno. Quando s’internazionalizza la crisi, con tutte le potenze vicine e più interessate (Russia e Cina se ne tirano invece fuori, con un’accondiscendente astensione all’ONU) schierate contro al-Qaddāfī, la sorte di quest’ultimo è segnata. Ankara lo capisce rapidamente e s’aggrega alla coalizione.

Sicuramente l’esperienza libica segna Erdoğan e il suo ministro degli esteri Davutoğlu, influenzandoli quando si tratta di far fronte agli eventi siriani. Il governo del AKP ha lavorato alacremente a ricucire i rapporti con la Siria negli anni precedenti: Erdoğan e al-ʾAsad palesano una certa intesa in pubblico. Ma all’esplodere delle rivolte, i Turchi scommettono sulla sconfitta del regime. Molto probabilmente, perché puntano su una ripetizione dello scenario libico, con l’intervento d’almeno alcuni paesi NATO, coalizzati con gli emirati del Golfo, a sostegno dei ribelli. Per non lasciare nuovamente l’iniziativa a Parigi e Londra, questa volta Erdoğan si muove per primo e si afferma rapidamente quale principale patrono dei ribelli e più eloquente sostenitore della necessità di un intervento esterno a loro sostegno.

C’è però qualcosa di errato nell’equazione. La rivolta in Siria non assomiglia a quella in Egitto o Tunisia, dove una schiacciante maggioranza della popolazione si solleva contro il despota. In Siria la componente tribale è più forte, e ciò avvicina la crisi siriana a quella libica (che, non a caso, non si sarebbe risolta con la vittoria dei ribelli senza l’intervento esterno). La dicotomia governo “laico” / opposizione islamista è ben presente anche in Siria, come in Egitto o in Tunisia, ma nel paese levantino non fa che acuire il contrasto settario. Spaventati dall’estremismo sunnita di certe frange ribelli (che acquistano peso crescente man mano che prosegue il conflitto), gli alawiti e i cristiani si compattano a favore del regime, visto come garanzia della convivenza comunitaria – o come pura e semplice garanzia della sopravvivenza di queste comunità minoritarie.

Ciò che più conta, il clima è cambiato anche a livello internazionale. Mosca, scottata dall’esperienza libica (dove, malgrado la sua accondiscendenza in sede ONU, non ha avuto sufficiente voce in capitolo nell’evolversi della crisi), preoccupata per la sorte degli ortodossi siriani e soprattutto per quella della sua base navale di Ṭarṭūs e delle commesse che Damasco garantisce all’industria russa degli armamenti, è meno incline ad assecondare i programmi occidentali. Il regime di al-ʾAsad non è inoltre completamente isolato come quello di Mubārak o quello di bin ‘Alī o ancora quello di al-Qaddāfī: dispone di un alleato forte come l’Iran e del favore delle componenti sciite nei vicini Iraq e Libano. Se i paesi del Golfo, ispirandosi allo scenario afghano, inviano “jihadisti” in Siria e se la Turchia arma il cosiddetto “Esercito Libero Siriano” dei ribelli, la Repubblica Islamica d’Iran e Ḥizbu ‘llāh danno invece il loro sostegno alle forze governative.

A cambiare significativamente è stato anche l’atteggiamento dell’Occidente. Se divisioni erano sorte già nel caso della Libia, esse sono ancora maggiori di fronte alla crisi siriana. La percezione dei sommovimenti nel mondo arabo è mutata. Di fronte all’ascesa di forze politiche islamiste nei paesi interessati dalle rivoluzioni, di fronte al crescente peso dell’estremismo sunnita nelle fila della rivolta siriana, settori cospicui dell’opinione pubblica e della classe dirigente occidentale mostrano paura o aperta ostilità verso gli sviluppi in corso. Gli USA non esitano a inserire sigle della ribellione siriana nella lista dei gruppi terroristi, mentre l’Unione Europea impone un bando alla fornitura di armi alle fazioni siriane. Questo bando è scaduto solo ora e da agosto Francia e Gran Bretagna – i paesi più favorevoli alla rivolta – potranno cominciare a passare apertamente armi ai ribelli siriani. Ma ciò avviene nel momento in cui la rivolta sembra aver perso il suo slancio e rischiare anzi la sconfitta definitiva. Il fatto che questa debacle sia causata o meno dall’uso di armi chimiche da parte delle forze governative è irrilevante. E non solo perché voci d’uso di armi proibite riguardano anche i ribelli, ma soprattutto perché tale accusa rivolta al regime di Damasco non è riuscita a smuovere le opinioni pubbliche e le diplomazie, come invece fecero pretesti di successo quali le “armi di distruzione di massa” dell’Iraq o i “bombardamenti aerei sulle manifestazioni” della Libia. Un intervento militare occidentale a fianco dei ribelli potrebbe con tutta probabilità invertire le sorti del conflitto (proprio come avvenne in Libia), ma le probabilità ch’esso avvenga sembrano scendere col passare dei mesi. Anche perché proprio l’esempio libico ha dimostrato quanto poi sia difficile gestire la successiva destabilizzazione, che in quel caso si è allargata al Mali e minaccia pure Niger e Algeria, costringendo la Francia a un secondo intervento militare.

Nel frattempo, “l’ondata islamista” ha subito una battuta d’arresto non solo in Siria. Massicce e violente manifestazioni di protesta contro i governi islamisti sono esplose, in tempi diversi, in Tunisia e in Egitto. Ora in Turchia. A dire la verità è improbabile che i tumulti turchi abbiano un esito differente da quelli tunisini o egiziani, ossia il loro scemare fino al ritorno alla normalità – salvo eventi improbabili, come un golpe militare. Tuttavia mettono in mostra una società divisa, una componente della quale – minoritaria ma ingente – non si è rassegnata a vivere il passaggio epocale dai regimi autoritari ma “laci” ai regimi democratici ma “islamici”. Proprio il fatto che in Turchia, Egitto o Tunisia non sia nata una “repubblica islamica”, come in Iran, dotata di sue proprie specificità, è la causa dei disordini e della conflittualità. Essa certo non è assente neppure in Iran, ma là è più sottotraccia perché il regime squisitamente autoctono e islamico ha marginalizzato, o del tutto estromesso, le contro-proposte più radicali dal sistema (come non citare il processo elettorale attualmente in corso, cui concorreranno solo candidati “centristi” essendo stati esclusi tanto i “riformisti” quanto i “deviazionisti”?). Turchia, Egitto e Tunisia hanno invece regimi politici modellati sul sistema occidentale ma, a differenza dei paesi occidentali, una intrinseca dicotonomia sociale e ideologica molto più marcata. I conflitti in questi paesi – ma si potrebbero citarne altri anche non musulmani: vedasi ad esempio il Venezuela – non sono abbastanza marginali da risolversi nel pacifico gioco della rappresentatività democratica. Ciascuna delle fazioni in ballo vede l’altra come un nemico mortale, e le sue proposte come esiziali per sé. Esperienze di dittature e sopraffazioni vanno a confermare tali convinzioni negli animi dei cittadini di tutti gli schieramenti. L’applicazione a società frazionate d’un sistema politico creato per società coese non può che generare instabilità.

In chiusura, non possiamo risparmiarci un’osservazione sul modo in cui le sommosse turche sono state accolte dal pubblico europeo. Questo stesso pubblico s’infatuò inizialmente delle rivolte arabe, descritte come la sollevazione di giovani laici, moderni e democratici contro regimi retrogradi e repressivi. Presa coscienza della realtà di una maggioranza islamista nel processo rivoluzionario, l’immagine prevalente in Occidente passò rapidamente dall’elegiaca “primavera araba” al dispregiativo “inverno islamico”. Non erano cambiate le persone, le idee o le dinamiche nei paesi arabi. Era cambiata solo la percezione occidentale. I rivoltosi erano stati inizialmente descritti come uguali, in tutto e per tutto, a noi (o, meglio, all’autorappresentazione che facciamo di noi stessi). Quando si è colta la loro differenza e specificità, è scattata una reazione di rifiuto e chiusura, come se l’opinione pubblica occidentale possa nutrire simpatia per le cause degli altri popoli solo nella misura in cui questi ultimi, e le loro cause, sono identici a noi. I tumulti turchi hanno ridestato dalla loro delusione gl’idealistici e un po’ naif osservatori occidentali. Finalmente, coloro che scendono in piazza sono veramente laici e “moderni” (anzi, post-moderni) come loro. Dalla parte del governo, questa volta ci sono gl’islamisti. Un’occasione d’oro per mondarsi del presunto errore del 2011 e finalmente sostenere una rivolta in cui ci si possa identificare appieno.

Purtroppo, la visione occidentale continua ad essere troppo semplicista (ci sono sempre dei “buoni” contro dei “cattivi”) e troppo etno-centrica (quelli che assomigliano a noi sono i “buoni”, quelli che ci assomigliano di meno sono i “cattivi”). Il governo di Erdoğan è come minimo paternalista, fors’anche autoritario. Il AKP è un partito islamista, ancorché “moderato”. Ma il governo di Erdoğan è stato eletto democraticamente e gode, probabilmente, ancora del consenso di almeno metà della popolazione. Le frange più politicizzate (e rappresentative) della protesta – lasciamo ora stare i bravi ambientalisti del Parco Gezi o i giovani che temono di non potersi più scambiare troppe effusioni in pubblico – si richiamano a quell’opposizione che è sì laica, ma che da decenni regge il suo potere – che sia al governo o che sia all’opposizione – sulla punta delle baionette, non lesinando golpe militari e arresti arbitrari o per reati d’opinione. È la medesima parte politica che, in nome del suo nazionalismo (la proposta alternativa all’islamismo del AKP), ha compiuto lo scempio della sanguinosa persecuzione dei Curdi o incarcerato chi non mostra deferenza verso la nazione turca e il suo padre Mustafa Kemal. È la medesima parte politica che legge come provocazioni e un tentativo di “re-islamizzare” il paese proposte quali la possibilità, per le donne che lo vogliano, d’indossare il velo ovunque. Continuare a leggere i fatti che avvengono in altri paesi, con specificità politico-culturali proprie, con le medesime categorie nostre è la ricetta migliore per sbagliare sempre e comunque. E negli ultimi anni, d’errori i paesi europei ne hanno compiuti davvero molti nella lettura dei sommovimenti mediterranei.

Le rivolte, i conflitti interni, l’instabilità dei paesi arabi e ora anche della Turchia fanno il paio con le difficoltà che attraversano i paesi mediterranei dell’Europa. Se i nostri vicini musulmani devono fare i conti con le divisioni interne e sommovimenti talvolta eterodiretti, Italia, Spagna e Grecia (si potrebbe aggiungere pure il Portogallo) annaspano in una crisi economica apparentemente senza via d’uscita, anche perché hanno appaltato la propria politica economica e monetaria alle potenze dell’Europa del Nord. Grandi cose stanno avvenendo nel Mediterraneo – nel bene e nel male – ma in ognuna di esse è difficile individuare un soggetto interno che stia agendo con piena forza creatrice, anziché essere travolto dagli eventi e cercare, con più o meno abilità, di cavalcarli per quanto possibile. Il mare è in tormenta e la nostra barca in balia delle onde e dei venti che soffiano da lontano. Il Mediterraneo si rivela sempre più una periferia geopolitica, mentre i centri di potere si sono spostati. Più a ovest, più a nord o più a est. Ma in ogni caso lontano da qui.


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