A Taranto chiudono l’italiana Marcegaglia (produzione di pannelli fotovoltaici a film sottile) e la danese Vestas (produzione di turbine eoliche) lasciando a casa oltre 300 persone. Due brutti segnali non solo perchè arrivano a brevissima distanza l’uno dall’altro, ma perchè colpiscono un settore su cui la città faceva affidamento.
È una piccola storia ignobile quella che in questi giorni ci arriva da Taranto. Piccola non certo per entità ma per visione di chi avrebbe dovuto renderla grande. Ignobile perchè nasconde una promessa ancora una volta tradita. Le cronache ci consegnano operai allo stremo, pronti a tutti pur di non perdere il proprio posto di lavoro, furibondi per aver creduto nel posto fisso che il giovane settore delle energie pulite avrebbe potuto garantire loro. L’ignominia più grande però sta nella mancanza di prospettiva, nella desertificazione industriale a cui Taranto (come altri poli industriali italiani) sta assistendo, ormai stremata da cento vertenze. Persino il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, da Bari, ha lanciato un grido d’allarme per la città che, “deve recuperare un ruolo che sta invece perdendo nello sviluppo generale del Paese”.
Una città dove il dramma del lavoro è diventato questione sociale se non addirittura di sopravvivenza. Vestas e Marcegaglia sono crisi diverse. Nel primo caso non soffre la produzione delle turbine eoliche ma il tipo di macchina realizzata a Taranto. Nel secondo, invece, l’azienda sostiene che è il fotovoltaico a non essersi affermato sul mercato. Ma i pannelli di Marcegaglia, almeno fino a poco tempo fa, sfruttavano una tecnologia innovativa, il film sottile che si può adottare anche alle coperture e ha dei costi abbastanza contenuti. È vero per stare al passo con la tecnologia bisogna continuare a investire ma il mercato si è anche spostato sulle coperture degli edifici pubblici e quindi la chiusura dello stabilimento non sembra – almeno apparentemente – giustificata. Forse, con il blocco degli incentivi il business non è più così redditizio, e quindi non vale più la pena mantenere una fabbrica nel Sud Italia?
Ma è vera anche un’altra cosa. Gli incentivi hanno spinto per anni i grandi impianti che hanno assorbito le risorse a disposizione lasciando, ad oggi, ben poco. Non sarebbe stato forse meglio spalmare gli incentivi su più anni (e favorire meno speculazioni) così da avere più persone occupate da qui al 2020 e non solo poche persone impiegate per qualche anno e disoccupate per tutti gli altri? Tra l’altro anche la disoccupazione è uno dei costi di cui tener presente. Perchè allora in questi anni non si è spinto di più sull’autoconsumo così da favorire la nascita di tante piccole e medie imprese che oggi potrebbero, forse, dare una prospettiva in più di lavoro anche a livello locale?
E soprattutto perchè si sono incentivate tecnologie obsolete e non si sono premiate quelle più innovative, in grado di portare le nostre aziende nel mondo? Col senno di poi è difficile fare i piani industriali e Taranto non può più aspettare che qualcuno si accorga degli errori fatti. Riflessioni amare che dovranno necessariamente portare Governo e Regione al rilancio e alla riqualificazione di una delle aree industriali più importanti d’Italia. Si attende a tale proposito anche il nuovo piano industriale del commissario Enrico Bondi di cui ancora non si conoscono i punti chiave. Nel frattempo però Taranto, come scrive Domenico Palmiotti su La Gazzetta de Mezzogiorno del 30 ottobre “è una povera città tradita anche dall’energia pulita”.