Per una lettura di Anna Karenina (1873-77) e Autopsia dell’Ossessione (Mondadori, 2010)
Il respiro non è mera funzione fisiologica; è il fenomeno da osservare per sondare l’umana profondità. Il Romanzo, in particolare, è un organismo animale che vive del proprio respiro, senza il quale sarebbe solo l’intenzione di padre impotente o madre sterile; la sua forza risiede nella capacità di modulare in racconto la zona d’ombra in cui un respiro privato evolve in azione pubblica.
Raggiunta dalla verità sulla natura del rapporto con Vronskij, Anna Karenina cela sorpresa e smarrimento [“Così! Me l’aspettavo!”, si disse con un sorriso cattivo (AK, parte VII, cap. XXXI)]. Uno stato d’animo violento si manifesta nella tranquilla funzione fisiologica [Ella parlava piano perché la rapidità dei battiti del cuore le impediva di respirare] che prelude alla minaccia [“Non ti permetterò di tormentarmi”, ella pensò, rivolta con minaccia, non a lui, né a se stessa, ma a chi le imponeva di tormentarsi]. Respiriamo con Anna il dolore e le reazioni a uno sguardo franco e onesto su di sé: l’isolamento [Per non vedere nessuno si alzò svelta e sedette accanto al finestrino opposto nello scompartimento vuoto], la superba auto-percezione di superiorità [Quando il treno entrò in stazione, Anna uscì tra la folla degli altri passeggeri e, allontanandosi da loro come da lebbrosi, si fermò sulla banchina, cercando di ricordare perché fosse arrivata lì e cosa avesse intenzione di fare], la drammatica scissione tra i propri sentimenti e la bellezza esterna percepita da giovani che non la lasciavano in pace, lo sforzo di non lasciarsi distrarre da sorrisi gioiosi o svelare da domande importune.
Combattere contro il nemico che le imponeva di tormentarsi richiede la chiusura in un sé che si concentra su un dolore non “estraniabile”: Una vespa, posatasi sulla testa di un serpente, lo tormentava, pungendolo senza tregua col suo pungiglione. Quello, sconvolto dal dolore, non riuscendo a vendicarsi della sua nemica, cacciò la testa sotto la ruota di un carro e si uccise. La favola mostra che c’è della gente disposta a morire pur di far morire i suoi nemici (Esopo, Favole).
Il respiro di Anna è il sussurro di chi ha introiettato il proprio doppio sociale; la natura ancipite di una personalità tra la vita e la colpa, che vede nella severità verso se stessa la risposta a un tradimento percepito, ormai, come intimo. Solo un attimo prima di morire Anna ha un moto di ripensamento, seguìto, però, da fatale rassegnazione: Voleva sollevarsi, ripiegarsi all’indietro, ma qualcosa di enorme, di inesorabile le dette un urto nel capo e la trascinò per la schiena. “Signore, perdonami tutto!” ella pronunciò, sentendo l’impossibilità della lotta.
Volendo uccidere il suo doppio privato per respirare liberamente nella società di cui aveva assimilato crismi e stilemi, Anna si ritrova suicidata.
Allo stesso modo in cui il Danilo Pulvirenti di Walter Siti si ritrova assassino.
Autopsia dell’ossessione è il respiro all’apice della consapevolezza: 1° maggio 2009, ore quattordici e trentacinque: dopo una pennica breve come una imboscata ma densa come un’intossicazione, entra nella stanza di Barbablù o delle rondini (9).
Nel giorno della festa dei lavoratori, Danilo si libera dell’ossessione dello schermo per i muscoli sodi e remissivi di Angelo, nel cui ricordo, fisicamente cristallizzato in icone fotografiche, si rifugia a rinfrancarsi da sogni indesiderati, o forse invece perché ancora posseduto da schizzi di fango onirico (11). I sogni sono il luogo in cui la vergogna mostra il suo radicamento nell’introiezione di un modello sociale. Sigillando i propri misteri in quella stanza, Danilo non ha obbedito a un impulso di vergogna quanto a un obbligo di garbo e di decenza civile (10) che gli deriva dalla madre, Candida Rangoni di Santacroce, con lo chignon alto sulla testa, gli occhialoni neri e la gonna a palloncino, la collana e gli orecchini (36). Come il ribelle Lapo Elkann, che non rinuncia a vestire il concetto di eleganza del nonno, anche Danilo, prima di entrare in un locale sadomaso, si stringe al collo una pashmina che non ha (20), a ratificare l’ordine nella cura dei dettagli scenici, fino a trasformare il sesso in sessione e l’alcova in set. Danilo non si concederà mai l’aspetto dimesso che invidia al Rivale, che è tale non perché contenga il germe della perdita d’amore ma perché rappresenta la libertà che Danilo si nega nell’illusoria assenza di comunicazione tra dimensione pubblica e privata. Se ossessione è vivere contemporaneamente in due dimensioni metafisiche inconciliabili, l’azzardarsi nei luoghi bui è un esercizio propedeutico, un allenamento di cartilagini che solo in un’incarnazione piena troveranno il loro impiego (85).
Nel gioco del desiderio, Angelo è die Sache, ciò che si può confessare e possedere, la madre è das Ding, lo sfondo di sogni incontrollati insinuantisi in penniche improvvise. La riconciliazione è all’insegna del ritorno a das Ding. Il desiderio è risucchiato verso un passato che risorge (33): l’infanzia precedente il divorzio semiologico, irrimediabile e inavvertito dalla mamma (37); prima che la stessa gli avesse intimato di non fare gli spaventi, dài, che i grandi devono parlare e l’amico di famiglia avesse commentato che se la psicoanalisi non è un’opinione, sto bambino diventa…, poi una parola strana e tutti a tossire (37).
Danilo vuole ridisegnare una mamma che si metta in posa per lui. Lo schermo cade e svela la natura di surrogato delle pose di Angelo.
Il respiro di Danilo diventa maniacale, il desiderio si fa impellente, lo scontro col presente è inevitabile: Candida, che cela in sé il terzo elemento della sintesi, è vecchia e malata. La regressione onirica è la via d’uscita: È raro che i mamba neri lottino tra loro; ma questi sono due giovani maschi, due fratelli alle prime imprese, fieri di esibire le squame lucenti. Cercano di atterrarsi con le mosse del wrestling, avvolgendosi tra le foglie secche, ma a distrarli dal gioco arriva un topolino, il loro primo pasto caldo. Uno dei due riesce a iniettargli, mordendolo, il veleno, una dose di veleno sufficiente per un bufalo; si vede il topo che springa con le zampe di dietro, consumando sui sassi l’agonia. Senza galateo, il fratello che non ha partecipato alla caccia afferra il topo per primo con la mascella snodabile ma l’altro riesce a inghiottire la testa. I due serpenti si drizzano nello sforzo – figura araldica a doppia S affrontata che ha al suo centro un segmento grigio del topolino (223). I due mamba, Danilo superiore e Danilo umiliato (25), intravedono la riconciliazione nella liberazione dalla madre vecchia, stretta tra le S araldiche richiamanti le iniziali del casato Santacroce, in nome del quale Candida, morente, mormorerà “grazie”, in un estremo conato di vomito (289), e Danilo avrà un attimo di esitazione. Sta per fermarsi perché gli appare lei coi seni ancora floridi e il cazzo da centauro, che si dispera e lo prega di chiamare un’ambulanza, dal cuscino esala inequivocabile un profumo di rose (289). La verità s’insinua troppo tardivamente: uccidere la madre equivale a uccidere il sogno; l’affronto finale si concretizza e, Danilo, come uno dei due mamba, senza galateo, scaccia l’immagine dal momento che in quel letto micragnoso non brilla un solo centimetro di pelle, ma uno springare rettile (289). Lo stesso moto di resistenza / abbandono del topo avvelenato.
Il respiro di Danilo è la riconquista dell’innocenza nell’illusione di ritrovare la serenità infantile.“Posso giocare col cavalluccio?”. Finalmente Danilo è riuscito a far regredire il tempo e può tornare a essere com’è stato, fiducioso e grassottello (289). Ma anche dopo l’atto liberatorio, il senso dell’ordine ritorna a dominarlo nel vicolo cieco della condivisione dei princìpi a cui si era ribellato: Quanto si dovrà pagare al medico necroscopo perché tenga la bocca chiusa? (290).
Anna e Danilo danzano sull’orlo del precipizio abbandonandoci nella pericolosa vertigine di una domanda: Quanto costa fingere un’impermeabilità del pubblico al privato?