Arrivata ad un passo dalle prime elezioni democratiche, fissate per il prossimo 11 ottobre, la tormentata nazione del Burkina Faso è tornata a fare i conti con la realtà drammatica del regime militare. Il presidente pro tempore Michel Kafando, che l'anno scorso aveva rilevato la posizione del generale Isaac Zida a capo del governo di transizione, nella notte tra mercoledì e giovedì è stato deposto.
Autori del colpo di stato sono i membri della irriducibile Guardia Presidenziale, ereditata dal vecchio dittatore Blaise Campaoré.
La miccia dell'insurrezione militare pare essere stata accesa dalle voci, sempre più consistenti, che avrebbero voluto l'istituzione di una commissione di inchiesta che indagasse sui delitti compiuti da Campaorè e dai suoi uomini durante gli scorsi ventisette anni di regime incontrastato.
Il comunicato ufficiale che afferma lo scioglimento del governo di transizione, diramato dai canali di informazione di Stato, parla di “dimissioni” spontanee dell'ex premier, a seguito delle quali i poteri esecutivi sono stati trasferiti ad interim nelle mani dell'ex capo di stato maggiore Gilbert Diendéré.
Fa specie pensare che nel paese dell'Africa occidentale, uno tra i più poveri del mondo, la rivoluzione democratica sia in realtà già avvenuta, poco più di qualche mese fa. Soltanto alla fine del 2014, infatti, il popolo burkinabé era riuscito a sollevarsi contro il despota Blaise Campaoré attraverso un'intensa serie di dimostrazioni di piazza che avevano posto fine a oltre un quarto di secolo di inflessibile dittatura.
Ciò nonostante, nell'equazione che disegna una verosimile distribuzione del potere all'interno nella regione, la popolazione era e resta il fattore di gran lunga più debole: le rivendicazioni di diritti e di giustizia sociale si perdono anno dopo anno nel silenzio immemore del deserto.
In Burkina Faso dunque continua l'esercizio della forza e del diritto marziale da parte del corpo di sicurezza personale di un tiranno che non c'è più, in attesa dei prossimi rivolgimenti che promettono altro sangue e altra ingiustizia.
Sono sempre più lontani i tempi di Thomas Sankara, leader di ispirazione socialista che negli anni 80 aveva tentato di difendere l'indipendenza politica ed economica dello stato africano dalla spartizione delle sfere di influenza della guerra fredda, promuovendo al tempo stesso delle imponenti riforme nell'ambito dell'agricoltura, dell'istruzione e della sanità pubblica.
La politica di non-allineamento di Sankara (del tutto simile a quella della Jugoslavia di Tito), risultò insostenibile, in primo luogo perché fu tentata nel continente sbagliato.
Nella perdurante logica di sottomissione del continente africano da parte del Primo Mondo, infatti, non è mai terminata l'ingerenza degli (ex?) colonizzatori francesi, ad ogni livello della vita pubblica.
La Seconda Guerra Mondiale sancì un sostanziale annientamento della forza militare e politica europee: ad esso seguì quello che i sussidiari ricordano come "il processo di decolonizzazione del secondo Novecento", fase storica che dopo mezzo secolo possiamo definire - per certi aspetti - un'etichetta superficiale per il tragico passaggio dalla vistosa apparenza del dominio imperiale al più sottile cappio della dipendenza economica.
Anche la storia recente del Burkina Faso ha seguito queste dinamiche.
Nel caso storico burkinabé, Parigi ha apertamente sostenuto il regime opprimente di Campaorè, trovando in quest'ultimo un ottimo interlocutore per un opaco controllo geopolitico della regione, telecomandato sottotraccia dalla capitale transalpina.
Forse è per questo che oggi, all'indomani del colpo di stato, nel caos che investe il Paese non mancano precise accuse rivolte al governo francese: a nessuno degli altri attori politici coinvolti più o meno chiaramente sul terreno dello stato africano, in effetti, sarebbe convenuto rivangare un passato di solide geometrie economiche costruite su decenni di repressione sanguinaria.
Ad ogni buon conto, il nuovo presidente Zida ha già disposto punizioni corporali per alcuni funzionari che avevano disertato la sua cerimonia di investitura, ed al contempo ha provato a rassicurare le istituzioni internazionali riguardo alla fattibilità delle prossime elezioni politiche.
Mentre la zona settentrionale del paese è di fatto sotto il controllo delle multinazionali minerarie - che solo pochi anni fa hanno iniziato la “corsa all'oro” burkinabé - per il momento nessun Paese occidentale ha preso una posizione che vada oltre alle dichiarazioni di rito contro la violenza civile.
La sola Svizzera ha momentaneamente sospeso il suo programma di aiuti allo sviluppo verso la capitale Ouagadougou, che ammonta a 11 milioni di dollari.
L'appuntamento con la Storia, per questa fetta di terra che non conosce la redenzione dalla schiavitù, è rinviato ad un futuro che non c'è.
Matteo Monaco
@MatteoMonaco77
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