> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" />> LoSpazioBianco" height="200" width="600" alt="Dai supereroi ad Angoulême: intervista a Manuele Fior >> LoSpazioBianco" class="aligncenter size-full wp-image-39279" />
PARIGI – Manuele Fior, in una delle sue rare pause tra un viaggio e l’altro, una copertina dell’Internazionale e una vignetta per il New Yorker, si prende qualche minuto per farsi una chiacchierata con noi sulla sua ultima, celebratissima opera, Cinquemila chilometri al secondo, sul mercato del fumetto e sulla propria evoluzione creativa. Abbiamo cercato di concentrarci su aspetti che ancora non fossero stati toccati su di lui, lasciando che fosse lui stesso a regalarceli. E a sorprenderci.
Mio padre era pilota dell’aeronautica di base a San Giorgio, e la mia famiglia si è trasferita a Cervia. Ho vissuto lì fino ai quindici anni, frequentando il liceo scientifico di Cesenatico, poi sono tornato a casa, in Friuli. Si può dire che tutto sia iniziato lì.
Hai iniziato a scrivere fumetti da ragazzino?
Ero un appassionato di fumetto americano Marvel. Appena ne ho avuto la possibilità, ho iniziato ad andare a Lucca e a mostrare le mie tavole agli editori, ma senza grossa fortuna. Credo che la scintilla per me sia stata la rivista Cyborg, in cui ho trovato i lavori di Igort che credo abbiano segnato il mio passaggio dalla cultura supereroistica a quella “autoriale”, per quanto il termine faccia paura.
Cosa scatta in un ragazzo quando rifiuta l’America per dedicarsi alla “nicchia” italiana?
Io mi ero stancato. Mi ero stancato delle tempistiche di pubblicazione della Star Comics, di dover far la spola tra loro e la Play Press a seconda delle uscite, di dover accumulare ritardi rispetto agli States. È stato proprio il rifiuto di un modello, credo. Arrivato allo Spider Man di Todd McFarlane, ho sentito che qualcosa si era rotto: era finita un’epoca. Paradossalmente, ci sto ritornando ora. Ai tempi pensavo che sarebbe stato tutto irripetibile, e invece ho iniziato a riscoprire alcuni lavori ottimi anche del periodo in cui ho snobbato il comic americano. I lavori di Miller e Mazzuchelli: Born Again, The Man Without Fear e soprattutto Batman: Year One; e poi John Romita sr. e John Romita jr…
È cambiato anche l’impatto mentale nel tuo metodo compositivo? Immagino che il cambio di letture sia corrisposto anche a un mutamento della tua sensibilità artistica…
È molto cambiato. Da ragazzo, quando scrivevo, mi cimentavo nell’emulazione: rifacevo storie americane che leggevo in continuazione e creavo una specie di “mondo” narrativo autoreferenziale. Con il passare del tempo ho iniziato a scrivere fumetti da me, ritrovandomi a raccontare un mondo non filtrato da esperienze altrui, ma solo ciò che vedevo per come lo vedevo. Questo mi ha permesso di sentirmi meno coinvolto come “fan”, se vogliamo, e ho iniziato a scrivere anche cose per le quali non c’era bisogno di conoscere necessariamente il mondo del fumetto per poterle vivere. Anche per questo il mio cammino artistico si è incrociato con quello editoriale di Coconino Press: la nostra idea di fumetto è orientata verso lettori che non ne sanno nulla, per farli affezionare alla nona arte senza necessariamente dar loro modelli definiti ma solo storie.
L’idea che ho sempre avuto delle scuole di fumetto è che, obiettivamente, insegnino quali siano le esigenze degli editori e come accontentarli, cosa vogliano avere gli editori dagli autori che pubblicano. Qualcuno vedrebbe quelle di Igort come “raccomandazioni”… Senti di esserti messo in gioco con Cinquemila chilometri al secondo? O forse sono i tuoi personaggi che parlano per te… In questo senso, potremmo aver trovato il difetto di Cinquemila chilometri al secondo, vero? È questo che pensi? E dopo Angoulême? A cosa stai lavorando? Riferimenti: Potrebbero interessarti anche :
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Credo che in Italia non venga premiata la professionalità. Credo che chi è veramente bravo in Italia non abbia la possibilità di essere ascoltato dagli editori. Quando le tavole passano sotto i loro occhi ho il dubbio che ci sia qualcosa che non funzioni. Presentarsi a una fiera senza aver fatto una scuola di fumetto è già un punto in meno, anche se magari il talento è maggiore di tanti mestieranti che dalla scuola di fumetto escono ogni anno. Poi non è che adesso che ho vinto Angoulême io mi senta arrivato: a tratti non sono nemmeno convinto di essermelo meritato fino in fondo e, ovviamente, l’emozione è pazzesca, come è pazzesco lo sprone a migliorarmi che questo premio mi ha dato.
È senza dubbio così. E può corrispondere a un certo tipo di reazione: le autoproduzioni italiane sono ottime e, alla fine della fiera, ci sono personaggi come Igort che quando vedono un artista con i numeri, lo prendono, lo seguono e lo fanno crescere. Secondo me manca questa cultura della “crescita” dell’artista. Questa presa di coscienza l’ho maturata in Germania e, forse anche per questo, ho scelto di non rientrare più in Italia, come tanti altri hanno fatto. In Francia il livello di concorrenza è molto alto, e l’asticella è difficile da superare. Nessun fumettista francese ha voglia di scherzare e il lavoro è preso molto seriamente, il che ti dà un ulteriore sprone per migliorarti sempre di più.
Igort è il fumetto italiano in Europa. E se “raccomanda” uno, vuol dire che per lui rappresenta un valore, non un oggetto da piazzare. Ben vengano personaggi di questo tipo, perché sono gli unici che possono superare lo scetticismo degli editori sui veri prodotti di qualità e convincerli a pubblicarli, anche se sono esordi.
Sento di aver dato molto. Quando prima dicevo che il passaggio artistico da mondo auto-referenziale a mondo interiore è il “tutto” di un artista, mi riferivo anche a Cinquemila chilometri al secondo. La storia di cui parla non mi riguarda direttamente. I personaggi sono completamente inventati e, quindi, non ho bisogno di parteggiare né per l’uno né per l’altro. Posso semplicemente trattarli come mi pare. Ma questo non deve trarre in inganno. Volente o nolente, ogni volta che scrivo qualcosa, una parte di me ci finisce dentro… viene digerita da me stesso. Certo, ora lo faccio con molta meno spocchia… Non parlo di me eppure mi accorgo che in alcuni momenti sono io che parlo.
Temo di sì. Ma è una cosa più profonda. Un autore cerca sempre di mandare un suo messaggio a chi lo legge, ma quando uno è un grande autore non ha bisogno di farlo dire ai personaggi. Lo fa solo attraverso il flusso della storia. Io invece mi sono accorto di aver fatto parlare troppo i personaggi, di essere stato troppo didascalico. Probabilmente il lettore è costretto a seguire troppo il fumetto per come voglio che lo segua io, ingabbiandolo nella mia visione… dicendogli cose che avrei voluto che capisse da solo, senza bisogno di dargli imbeccate.
Dici? No, non penso d’esserne così dipendente [ride] però la femminilità mi attira. È una questione di estetica e di curiosità: è così difficile sapere quello che pensano le donne, mentre è più facile prevedere quello che pensano gli uomini. Ma, andando oltre il piacere personale, non è tanto la donna che mi interessa nei miei racconti, quanto quello che donna e uomo sono insieme. Due metà che si completano. È quel genere di flusso di pensiero che mi è sempre interessato descrivere, quello della coppia.
Passerò alla fantascienza. Il fumetto sarà ambientato nell’Italia del 2050 ed è un lavoro più “pensato” dell’ultimo. Già dalla fine dell’ultima stesura di Cinquemila chilometri al secondo mi girava per la testa l’idea di un fumetto di fantascienza e ho incominciato a lavorarci sopra. Per ora ho finito la stesura del primo capitolo.
Il blog di Manuele Fior: www.manuelefior.com
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