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Bum! Filmone.
Non so dove fosse stato fino ad oggi questo giovane regista danese ma ora che l’ho incontrato me lo tengo ben bene stretto. Potrò sbagliarmi, eppure ho visto nella regia di Simon Staho una padronanza tale del mezzo che mi ha trasmesso una sensazione di grande competenza. Come dire: sentivo che il cineasta sapeva quel che faceva. E questa è una cosa che riguarda i grandi, e lui potrebbe esserlo.
Grandi come i punti di riferimento del cinema scandinavo che è impossibile non menzionare. Difatti pare una tendenza più o meno consolidata di questi paesi dare grande risalto ad eroine femminili tra il sacro ed il profano. Non mi riferisco solo alle Grace di Lars von Trier – a proposito, questo film è prodotto dalla Zentropa – ma anche al primigenio La passione di Giovanna d’Arco (1928). E Staho sembra omaggiare Dreyer in lungo e in largo perché costella la pellicola di intensi primi piani sul viso di Noomi Rapace, attrice capace di disintegrare lo schermo solo che con gli occhi.
L’incipit che apre il film è da manuale, e sebbene non originalissimo, c’è chi cita Lynch, solleva il sipario su una storia spietata che ha la meravigliosa capacità di far riflettere mentre riflette su se stessa.
Ci sono due vie parallele percorribili: la prima è quella che vede Anna alle prese con i problemi che una ragazza madre prova a superare. Più o meno tutto ruota come sempre intorno alla mancanza di soldi per riuscire tirare avanti, si noti che alla fine Anna viene umiliata da Jens Albinus (Idioti, 1998) che le riempie la bocca di denaro, e così assistiamo a continui provini in cui sebbene Anna sia bravissima viene respinta per motivi futili tipo la dizione imperfetta, il fatto che non abbia una formazione specifica, o per il seno troppo piccolo. Surplus negativo è la piccola Daisy che con il suo pianto incessante, la piccola ha fame ma la madre non ha latte nel seno e da qui sorge un ulteriore senso di inettitudine, porta all’esaurimento la mamma ed anche lo spettatore perché vi assicuro che gli strilli della piccola urtano davvero i nervi; da ciò scaturisce una forte empatia con la protagonista che lascerà sconcertati (oppure no?) per il suo gesto estremo. Le musiche che accompagnano l’affogamento, le prime che si sentono, suonano a beffarda liberazione di un peso. Cosa che non accadrà visto che il senso di colpa perseguiterà sottoforma di una Daisy adulta (“Io ero speciale. Hai mai pensato a questo?”) la giovane mamma la cui vita collassa inevitabilmente in un processo di autodistruzione senza ritorno. Un martirio fatto di sottomissione, freddezza, lontananza, alienazione.
La seconda via parallela che completa un piatto già molto ricco è quella che riguarda i segmenti in cui Anna recita durante le audizioni. Non si tratta di semplici riempitivi poiché il suo dramma si intreccia con il set cinematografico che diventa il limbo nel quale realtà e finzione si (con)fondono senza possibilità di distinzione. È per questo che è stato tirato in ballo Lynch, ed è sempre per questo che l’opera è in grado di far pensare compiendo una sapiente autoriflessione. Metacinema dicono gli esperti, capacità di ragionare su di sé spiegando e spiegandosi.
Accade questo: i fatti che stravolgono la vita di Anna trovano sempre un corrispettivo incastro nelle sceneggiature delle audizioni per cui molto di ciò che è accaduto ci viene suggerito nelle ambigue pieghe della finzione depositando domande su domande.
Come appare, dunque, il cinema agli occhi dello spettatore? Un ancora di salvataggio nella disastrata esistenza di Anna? Una via di fuga? No. Niente di tutto questo. Il mondo della finzione segue di pari passo quello della realtà, per cui anche qui ci sono individui meschini come la regista lesbica o il regista che vuole farsi Anna promettendole raccomandazioni. È una visione negativa, sicuramente spoglia di sentimenti che sono il mastice dell’arte. Anzi, il sentimento c’è, ed è quello della protagonista, ma Staho è più spietato del boss Trier e in un orizzonte di ghiaccio anche la tremula fiammella di Anna si spegne presto, probabilmente da subito.
Pietra tombale sul finale dove le due vie parallele arrivano a sfiorarsi. Il cinema ripercorre la vita (la morte?) di Anna, e la morte (la vita?) di Anna diventa cinema.
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