Per arrivare da Juba a Khartoum, capitale del Sudan, il solo canale disponibile era navigare il Nilo Azzurro su un battello per il trasporto merci. Dopo tre giorni, in compagnia di un’allegra comitiva di profughi somali e darfuriani, sono arrivato a Bor e approfittando delle operazioni di scarico siamo scesi sulla terra ferma per godere di un pasto caldo e del conforto di un letto. Al nostro risveglio, però, abbiamo scoperto che la polizia aveva sequestrato la nave perché il capitano si era rifiutato di pagare le tasse – o le bustarelle? – di trasporto. La motrice batteva bandiera sudanese e forse stavano scontando le tensioni ancora in corso con il Sudan del Sud.
Senza un’imbarcazione diretta a nord a me e ai miei nuovi compagni di viaggio non restava che trascorrere le giornate tra il porto e il ristorante etiope che era divenuto la nostra base logistica. Bor non è che un grosso villaggio rurale abitato da allevatori e pescatori, ma la vicinanza al fiume lo ha reso un centro di passaggio per profughi e viaggiatori. Abbiamo provato a chiedere tra i pescatori se erano disposti a portarci a Malakal, più a nord, ma dopo un’interessante contrattazione al tavolo di una capanna non sono riuscito a portare il prezzo sotto le 15 mila sterline sudanesi, circa tremila euro. La ragione sembrava essere il costo del carburante – estremamente elevato nonostante il Sudan del Sud disponga di ingenti riserve di greggio – ma forse la colorazione della mia pelle contribuiva ad alzare il prezzo di qualunque cosa. Per fortuna vitto e alloggio non sono altrettanto costosi, perché ero almeno a due frontiere di distanza da qualunque bancomat utile e la mia riserva di dollari cominciava ad assottigliarsi. Dopo tre giorni eravamo senza speranza, e Khartoum sembrava allontanarsi sempre più.
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Alla fine è arrivata la buona notizia: un’imbarcazione era appena arrivata a Bor e stava per ripartire verso nord. Sono corso al porto e insieme ai miei amici somali ho portato il mio bagaglio e quello che restava dei miei viveri sulla nuova nave. Ahmed, l’ex contrabbandiere somalo che in quei giorni mi aveva tenuto compagnia con le sue incredibili storie, non poteva spostarsi perché la merce che accompagnava richiedeva troppo spazio. Così ci siamo abbracciati fraternamente e abbiamo aspettato la sirena della partenza. L’abbiamo aspettata parecchio, tanto che alla fine è cominciata a circolare la voce che la nave sarebbe partita solo il giorno dopo. Mi sono lasciato convincere a concedermi ancora una notte in albergo e un pasto caldo con Ahmed, così siamo tornati dai locandieri etiopi, felici di condivedere un’ultima serata in compagnia.
Il giorno dopo Ahmed è venuto a bussare alla mia stanza prima dell’alba. “Mi hanno chiamato gli altri, la nave è partita questa notte.” Siamo corsi fino al porto, ma sapevamo che era troppo tardi. La nave era già lontana, con tutti i miei bagagli. “Non ti preoccupare della tua borsa, ci penserà Jeri a tenerla al sicuro.” Eravamo rimasti io – con solo il mio zaino in cui tenevo soldi e documenti – il giovane Mohammed e sua sorella Deha. Gli altri avevano dormito sulla nave e perciò erano già in viaggio. Un gruppo di pescatori si è offerto di portarci fino alla nave per un congruo compenso sul loro motoscafo, ma dopo un’ora di inseguimento abbiamo rinunciato a ogni tentativo e siamo tornati alla nostra base.
Ero sul mio letto, mezzo addormentato e incapace di pensare a cosa avrei fatto da lì in avanti se non avessi recuperato alla svelta il mio bagaglio, quando Deha mi ha chiamato per dirmi che c’era un’altra nave. Siamo corsi al porto e ci siamo saliti a bordo in cerca di un angolo dove infilarci. Questa imbarcazione era più sporca e malconcia dell’alrta, ma disponeva di una stanza senza pareti coperta da un tetto di lamiera per ripararsi dal sole e dalla pioggia. Dopo poche ore ci siamo resi conto che era anche più veloce e che avremmo raggiunto gli altri il giorno seguente.
Quando Jeri mi ha consegnato la mia borsa mi sono subito accorto che era asciutta, nonostante il giorno prima avesse piovuto. “L’abbiamo coperta con i nostri vestiti.” Senza dovermi più preoccupare di trovare un mezzo di trasporto, mi stavo finalmente rendendo conto di quale straordinaria avventura stessi vivendo insieme a questi ragazzi, in fuga dagli angoli più infami del pianeta, ma sempre disposti a condividere qualunque cosa con i propri compagni di viaggio.
Quella notte non sono riuscito a dormire. Sentivo Jeri, Mohammed e gli altri parlare di cosa avrebbero fatto una volta raggiunta l’Italia, ma io non pensavo ad altro che alle scene di Lampedusa e dei profughi ammassati nei campi di “accoglienza”. Non sono riuscito a infrangere i loro sogni. Rispondevo solamente inshallah, se dio vuole…
Leggi la puntata precedente: verso nord sul Nilo Bianco.
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sudafrica… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
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