Paese che vai, tiranno che trovi.
Harare è la capitale dello Zimbabwe, una nazione complessa e molto controversa. È anche uno dei centri urbani più moderni e sviluppati dell’Africa meridionale. È la dimora di molte persone gentili ed ospitali, e anche di qualche farabutto. Il più grande farabutto di tutti è forse il presidente Robert Mugabe, un tiranno avido e violento, omofobico, razzista e sessista, che ha ridotto in miseria una nazione ricca e prosperosa dopo una guerra civile che al costo di moltissime vite ha spodestato un potere illegittimo – quello dei bianchi – solo per sostituirlo con una dittatura mascherata da democrazia. Alla veneranda età di novant’anni e dopo oltre trent’anni di potere incontrastato, quest’uomo è ancora saldamente aggrappato alla sua poltrona e non accenna a volerla mollare.
Un giorno su un quotidiano nazionale ho letto di un ragazzo che è riuscito a umiliare pubblicamente Mugabe. Al funerale di suo padre, veterano della guerra civile, questo ragazzo ha avuto l’ardire di denunciare pubblicamente le persecuzioni e le torture ad opera del partito di governo e di cui anche il padre è stato vittima. A dover porgere l’estremo saluto subito dopo il figlio era proprio Mugabe e io non ho potuto fare a meno di provare una grande simpatia per quel giovane e per tutti i cittadini di un Paese le cui contraddizioni non potevano fare a meno di ricordarmi il mio.
Un’altra situazione insolita con cui ogni visitatore dello Zimbabwe deve fare i conti è il fatto che la valuta in uso è il dollaro americano. La recessione ha disintegrato il valore della moneta locale e anche dagli sportelli automatici delle banche non escono che verdoni. Il problema è che spesso l’unico taglio disponibile è quello da cento dollari, e il mio stile di vita ad Harare non era tale da consentirmi di pretendere un resto molto elevato dai commercianti con cui avevo a che fare.
Di solito negozi e supermercati rilasciano un buono acquisto sullo scontrino pari all’importo dovuto di resto, ma io che svolgevo i miei acquisti dove capitava sapevo bene che non sarei mai tornato a usufruire di quel credito. Dopo qualche giorno anche comprare le sigarette – circa due dollari a pacchetto – era diventata un’impresa, e la mia principale occupazione durante la giornata era trovare il modo di avere degli spiccioli.
L’ultima sera in città volevo godere un po’ della popolare scena jazz di Harare. La sola banconota rimastami era ovviamente da cento dollari – che in Zimbabwe sono quasi sufficienti per comprarsi una macchina – e così mi sono infilato nel Manenberg, noto locale sulla Fife Avenue, ho dato la banconota in mano al capo barman e gli detto che sarei venuto a recuperare il resto dopo aver mangiato e bevuto. Ho fatto del mio meglio per ridurre tale resto a una cifra gestibile, e la conseguenza di ciò è stata che il mattino dopo mi sono svegliato “leggermente” più tardi del previsto. Mentre correvo verso la stazione un tassista mi ha convinto a salire a bordo e ha cominciato a farmi il terzo grado riguardo alle mie intenzioni.
Un inaspettato mal di testa mi impediva di gestire con fermezza la nostra conversazione, e così mi sono lasciato convincere a farmi portare direttamente a Mbare, da dove avrei preso un mezzo per il confine. Mentre procedevamo l’autista ha notato che sui miei appunti mi ero segnato qualche destinazione in Zambia e ha cominciato con “ma allora tu sei diretto in Zambia!” seguito da uno sproloquio in un inglese stentato da cui ho dovuto dedurre che 1) ero tremendamente in ritardo per qualunque pullman diretto a nord; 2) alla stazione di Mbare loschi figuri avrebbero tentato di estorcermi una fortuna quale che fosse la mia destinazione; 3) il destino mi aveva messo su quel taxi affinché mi portasse a Greenroft, da dove avrei sicuramente trovato un passaggio verso nord.
Non avevo né la voglia né la forza di ribattere, così mi sono lasciato portare dove voleva e intanto ho assunto un’espressione che non tradisse il fatto che non avessi idea di dove stessimo andando.
Leggi la puntata precedente: Verso Harare e lo Zimbabwe.
Flavio Alagia
Dopo una laurea in giornalismo a Verona, mi sono messo lo zaino sulle spalle e non mi sono più fermato. Sei mesi a Londra, un anno in India, e poi il Brasile, il Sud Africa… non c’è un posto al mondo dove non andrei, e non credo sia poco dal momento che odio volare. L’aereo? Fatemi portare un paracadute e poi ne riparliamo.
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