L’altro giorno sono andata dal medico. In sala d’attesa c’erano tre anziane prima di me che aspettavano il loro turno.
Entra la prima che termina dopo pochi minuti e con un saluto di cortesia esce di scena mentre la seconda si appresta lentamente ad entrare: impugna il bastone, e comincia a strisciare verso lo studio del medico. Si tratta di una vecchietta pacata, con lo sguardo ruvido di lacrime asciutte e labbra falsamente ridenti. In realtà soffre, più di tutti.
Dalla sala d’attesa si sentono i saluti tra lei e il medico, saluti e lamenti che si diramano gradualmente in confessioni. In quel momento il medico diventa psicologo e l’anziana paziente che al termine della seduta, esce dalla stanza con l’aria – comunque! – insoddisfatta, dalla controfigura grinzita e cadente abbastanza vittoriosa come a dire “Ecco fatto, l’ho conciato per le feste“.
Mi guardo attorno, e due donne sulla sessantina appena arrivate si raccontano storie inerenti al contesto: dolori (ovviamente!)
Seguo il triste racconto di una signora che ha avuto cinque ernie, che non riesce ancora a muovere bene le mani. La donna che ascolta dispiaciuta la storia condivide la disgrazia con mugugni di sconforto e teorie pessimistiche sulle sofferenze della vita, su Dio e sul tanto coraggio che ci vuole, a volte. Quando la prima donna sembra aver concluso il racconto, la seconda donna cercando di non entrare troppo sul personale si limita a una sola domanda.
“Quanti anni ha questa povera donna?”
“80 anni. Si mantiene però.”
“In vita!” avrebbe voluto risponderle, ma si trattiene e butta giù un sospiro, senza aggiungere altro.
Sospiro anch’io.