A Kaolak arriviamo in ritardo di 8 ore, l’incontro del mattino, si svolge alla sera, bevendo birra analcoolica per solidarietà, si fissa un’altro incontro fra un paio di mesi, non è ancora avvenuto, avverrà. PensoI tempi d’Africa sono quelli della sospensione, si vive in quella nicchia di tempo in cui probabilmente le cose accadono. C’è chi si lamenta che così non c’è più certezza di nulla ed invece non è vero, le cose continuano ad esistere, il pullman, l’albergo, i villaggi, le persone esistono, ma i fatti accadono per incroci di possibile, di tempi che si accolgono tra loro festosi..
Il pullman, l’albergo, gli appuntamenti hanno un’ora, ma potrebbero non averla, in fondo è il caso e il flusso che ci mettono assieme. Capisco che molti non sopportino, quelli per cui il tempo vuol dire molto, anche in termini vitali, non si adeguano, hanno ragione. La stessa ragione di chi abita in questi paesi e considera diversamente. E’ casa loro, al massimo si può crescere assieme.
Il rapido, il presto, esistono, ma non coincidono. Le persone corrono per motivi differenti. In una contrattazione -e si contratta quasi tutto- il presto può durare ore, giorni, non chiudersi e non finire. Non c’è un criterio di convenienza immediato, se non nel negozio in cui si deve consumare, ma il resto è un vivere, accettando ciò che accade. In questo, io occidentale, pur adattandomi, faccio fatica perché voglio che accade il mio volere, ma in questi paesi non funziona per tutti, funziona solo per me. Sono asincrono finché non cammino allo stesso passo. Questa dimensione del tempo è dimensione dell’accadere, ovvero ciò che accade, poco o tanto che sia, è il possibile. Una dimensione che introduce altro, perché l’attesa genera la sorpresa che è dietro l’angolo. Senza questa attesa sospesa, quello che sorprende -ed è molto più frequente che in occidente- non ci sarebbe stato, sarebbe stato previsto.
Ciò che è determinato non lo è più tanto con questa nozione del tempo; capisco la difficoltà degli occidentali che lavorano in questi paesi, gli viene tolto uno strumento essenziale di lavoro, ma io non ho questo problema. Per ora. Quando posso andare in Africa, semplicemente mi adatto. Mi viene da pensare a come ci portiamo dietro il tempo come bagaglio, a come, tra noi, viviamo in una bolla che ci isola dal contesto anche quando viviamo in paesi differenti. Parlare, litigare, far l’amore, sorridere, sono necessità contingenti, e sembra che, nell’Africa che ho viaggiato, abbiano il futuro che ciascuno gli assegna e mai così importanti da determinare vite. Accadono, e sono, come tutto il resto, importanti e in movimento. Ecco, penso che questi paesi senza il mio tempo, siano in movimento come nel treno di Einstein e guardino fuori, mentre si muovono nel vagone. Se il treno non si schianta, la vita prosegue per suo conto senza necessità di accordo tra due velocità differenti.
Probabilmente.
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