Dall'Afghanistan a Brescia: Hic sunt leones
Creato il 19 novembre 2012 da Astorbresciani
Non potevo esimermi dal presentare l’Inferno chiamato Afghanistan anche a Brescia. Avrei tradito le mie origini bresciane, chiaramente rivelate dal cognome che porto. Sabato 1 dicembre, alle ore 18:00, racconterò il mio Afghanistan al pubblico bresciano che avrà la compiacenza di ascoltarmi presso la Libreria Feltrinelli in Corso Zanardelli 3. Come è già accaduto col mio post dedicato a Pavia, ho cercato anche per Brescia il trait-d’union con l’Afghanistan. L’ho trovato subito, facilmente.Sono due mondi distanti che posti su una metaforica carta geografica antropologica si avvicinano e meriterebbero d’essere segnalati, come nei tempi antichi, con la dicitura topografica Hic sunt leones. Cominciano con Brescia. Tutti sanno che è detta la leonessa d’Italia e che è “beverata nel sangue nemico”, come recita l’ode Alla Vittoria di Giosuè Carducci. Ma non fu lui il primo a immaginare Brescia come una leonessa. Il merito è di un poeta veronese, Aleardo Aleardi, che vent’anni prima, nel 1857, nei suoi Canti patriotici scrisse “leonessa d’Italia, Brescia grande e infelice”. È noto che Brescia meritò questo titolo per via dell’eroico comportamento dei suoi fieri abitanti, che dal 23 marzo al 1 aprile 1849 insorsero contro gli austriaci. Ben prima delle “Dieci giornate di Brescia”, uno dei momenti più alti della prima guerra d’indipendenza, il leone, che oggi compare rampante e di colore azzurro su fondo argento nello stemma della città, era già familiare ai bresciani. Parlo del leone di San Marco, che indicava come la città facesse parte della Serenissima Repubblica di Venezia. Pur tuttavia, il leone era presente a Brescia ancor prima del dominio veneziano. E l’Afghanistan? A tale proposito, mi sembra esaustivo il capitolo del mio libro dal titolo Le iene ridono dove regnarono i leoni. Eccone uno stralcio. “All’ingresso dello zoo di Kabul – un luogo fatiscente e triste che ho visitato col cuore pesante – fa bella mostra di sé una statua di bronzo raffigurante un leone. La targa posta sul basamento riporta: Marjam. Era il leone più famoso del mondo. Marjam non era un leone qualsiasi bensì l’infelice sovrano dello zoo di Kabul. Era il simbolo di un Paese capace di resistere a tutto, fuorché al proprio degrado. La sua storia merita di essere conosciuta. Marjam era nato nel 1976 e fu donato allo zoo di Kabul da quello tedesco di Colonia. Accolto come attrattiva, divenne suo malgrado un testimone della follia afghana. Sopravvisse dapprima all’omicidio del re Zahir Shah, all’ascesa al trono di suo fratello Daoud, al colpo di stato dei comunisti, all’invasione sovietica, alla guerra civile scatenata dai mujaheddin, alla distruzione di Kabul fino alla presa di potere da parte dei talebani e alla loro cacciata, a seguito dell’arrivo degli americani. Morì malconcio il 25 gennaio 2002, lasciando costernati gli abitanti di Kabul e il mondo intero, che si era affezionato a questo felino coraggioso, ormai ridotto a un patetico, grosso pupazzo di panno lenci. Si dice avesse quarant’anni e lo si credeva immortale. Marjam era sopravvissuto a molti dei bambini che erano impazziti per lui, a molte mamme morte sotto le bombe, a tanti papà scomparsi nel nulla e persino a un attentato. Andò così. Nel 1993, un mujaheddin entrò nella gabbia per mostrare il suo coraggio. La leonessa Chucha non lo degnò di un solo sguardo ma Marjam reagì. Lo assalì e lo uccise. Il giorno dopo, il fratello della vittima lanciò una granata nella fossa dei leoni. Chucha morì e Marjam perse un occhio, i denti e parte di un arto. Però salvò la pelle e da quel momento in poi divenne un eroe, un mito vivente la cui celebrità varcò i confini dell’Afghanistan. Orbo, costretto a cibarsi di carne disossata, claudicante ma pur sempre fiero, Marjam ha fatto in tempo a salutare con una certa pigrizia i soldati stranieri venuti da molto lontano per riportare la pace e la libertà. La sua morte è stata una liberazione dalla cattività che non meritava. Il posto di Marjam è stato preso da due leoni che la Cina offrì alla città per riempire il vuoto lasciato dalla sua scomparsa. L’anno scorso, un pazzo è entrato nella loro gabbia con cattive intenzioni, proclamandosi l’unico, vero leone dell’Afghanistan. Va da sé che il leone Akon non era d’accordo, perciò gli si è avventato contro. L’uomo, subito soccorso, è stato portato in fin di vita all’ospedale di Emergency, dove è stato operato d’urgenza. Presentava più di quaranta ferite e gli sono stati applicati cento punti di sutura. Si è salvato, nonostante la sua incoscienza. Nell’estate 2009, un tenente veterinario della Folgore ha invece strappato alla morte Akon, che non se la passava granché bene. Anche se le bombe non piovono più dal cielo né esplodono granate nelle gabbie, i leoni non possono stare bene a Kabul. Il loro tempo è finito. Ci fu un’epoca in cui sulla mappa della terra degli afghani – un territorio chiamato Bactriana, Aracosia, Ariana, Gandhara – si poteva leggere Hic sunt leones. Nell’antichità, il leone asiatico era molto diffuso. Curzio Rufo narra che ai tempi di Alessandro il Grande, nel regno bactriano, il re e la sua corte potevano cacciare moltissime fiere, fra cui i leoni asiatici, in apposite, grandi riserve cintate dotate di torri. Era una delle espressioni del fasto orientale. Gli ultimi leoni selvatici, fatti oggetto di ossessive battute di caccia, sopravvissero in Afghanistan, Pakistan e India fino alla seconda metà del XIX secolo. In Iraq, gli ultimi due leoni furono catturati nei primi anni del ’900 lungo il fiume Khabur. In Persia, l’ultimo leone fu osservato nel 1942. Oggi, i leoni asiatici sono estinti ma per vederne un paio non comuni basta recarsi ad alcuni chilometri da Kandahar, ai piedi della località detta Chihil Zina, i Quaranta Gradini che conducono a una nicchia scolpita in uno sperone roccioso. Da cinque secoli due leoni che nessuno oserebbe smuovere montano la guardia al piccolo complesso monumentale voluto da Babur, il fondatore dell’impero Moghul. Ovviamente, sono di pietra. Era invece umano l’ultimo, leggendario eroe afghano erede dei tanti condottieri dal cuore di leone che fecero grande il Paese al tempo degli imperi islamici e dei regni afghani. Il suo nome suscita ancora oggi orgoglio, ammirazione e commozione. Mi riferisco al comandante Ahmad Shah Massoud, il leader dell’Alleanza del Nord che durante la guerra partigiana contro i sovietici seppe respingere le nove offensive che l’Armata Rossa scatenò nella Valle del Panjshir. La resistenza messa in atto dai mujaheddin tagiki della valle costò ai sovietici il 60% delle perdite umane dell’intera guerra in Afghanistan (1979-1989). Il Panjshir – la regione il cui nome significa cinque leoni – consacrò l’abile stratega Massoud, il cui valore in battaglia gli valse il titolo di Leone del Panjshir. Il ritratto di Massoud (1953-2001) campeggia ovunque a Kabul e in molte altre città e province dell’Afghanistan. La sua effige fa bella mostra di sé sulle facciate dei palazzi, sui parabrezza delle automobili, nelle vetrine delle botteghe. È un eroe nazionale molto amato e avvolto in un alone di leggenda a causa della sua drammatica e inopinata uscita di scena. Il Che Guevara afghano ha combattuto anche contro i talebani ma era inviso a chi lo invidiava e temeva. Il 9 settembre 2001, due giorni prima dell’attentato alle torri gemelle di New York, Massoud trovò la morte per mano di due arabi vili che si finsero giornalisti. I mandanti dell’assassinio non sono mai stati scoperti. I sospetti, però, gravitano sui talebani e su Al-Qaida. Gli si voleva impedire di liberare l’Afghanistan dal gioco dei fondamentalisti. Uccidendolo, lo si è reso immortale…” A questo punto, nel mio libro, a pag. 74, racconto dell’omaggio che ho voluto fare al Leone del Panjshir e quello che mi accadde in quella valle un tempo piena di leoni e oggi di mine. Ne parlerò certamente a Brescia e insieme racconterò altri aneddoti che aiuteranno il pubblico della Feltrinelli a conoscere un Afghanistan quasi intimo, diverso da quello frettoloso e stereotipato che ci viene presentato dagli inviati speciali dei giornali e delle televisioni, vincolati dal tempo che è tiranno e dall’impossibilità di visitare il Paese dei Talebani a briglia sciolte, senza vincoli e condizionamenti, come invece feci io.
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