Enrico De Lea
Dall’intramata tessitura - Edizioni Smasher,
Fotografia di copertina Giulia Carmen Fasolo
dalla Prefazione di Alessandra Pigliaru
Della parola
La poesia è figlia della notte, ricordava Jabès. Dovrà usare la voce per uscire dall’oscurità. Si farà trasparente la parola poetica, e non invisibile; raccoglierà i brandelli di ciò che in altro modo non può essere detto. C’è una necessità nel dire poetico che sovverte l’alba e si fa saldo coro degli opposti. Per poter vedere quell’indistinto che preme alla soglia del giorno si dovrà muovere con cautela verso un lume, oppure lasciarsi vincere dalla caduta in un altrove. C’è un doppio monito nelle parole di Jabès: da una parte si deve stare in guardia da chi canta immobilizzato dalla sorpresa e dall’altra ci si deve far piegare dalla notte come da una confidente a cui tendere le mani. La notte conosce l’intramata tessitura della memoria, del sofferto e cogente desiderio che dalla terra passa al verso. La nuova silloge di Enrico De Lea si fa largo nell’indistinto e caotico fragore dell’oscurità per dire, una volta per tutte, che non si arriva al mondo da soli. Neri e gaudiosi lumi in valle è la sezione di apertura dell’intero volume e la dichiarazione di un impossibile spaesamento. De Lea sa bene infatti che non ci si espone se non in quel noi che presagisce il passo a venire. Il coro è questo dirsi voce solo in quel noi. Da un plurale che dissolve l’aderenza dell’Io dunque, De Lea intona il proprio avvertimento. In quella terra raccontata dal poeta tuttavia le mani tese alla confidente sono come visitate da un linguaggio che ci parla; il dasein infatti sta nei versi come abitacolo di una perpetua veggenza. Quel ci che contraddistingue la tonalità emotiva è fonte sorgiva dell’essere-parola. Qui e ora o al di là?
dalla Nota critica di Enzo Campi
Leggendo De Lea, come del resto già notato da altri, viene spontaneo pensare a un calco. Sembra quasi che una delle preoccupazioni dell’autore sia quella di rendersi a tutti i costi riconoscibile. La disseminazione, quasi seriale, di quelli che andremo a definire elementi primari (cave, crinali, armenti, torri, rocce, fortini, valli, dirupi, ciottoli, eremi, cortecce, ecc.), quegli elementi che puntualmente ritornano in un continuum letterario così preciso da sembrare quasi matematico, ci porta istintivamente a considerare l’opera come una macchina i cui ingranaggi sono sempre ben oliati dall’autore/untore.
selezione testi
Neri e gaudiosi lumi in valle
Quarantena delle madri,
l’impastata notte di carbone e latte,
dietro il Coro, intorno alla fontana
delle mormoranti nostre brocche,
si tace del ritorno dell’acqua
a Selino, dopo anni di secca,
per la prossima festa, per la
devozione dell’urna al plenilunio.
Indugiare, sorelle, ave, nella conta dei morti,
pienamente parlare ed affidare
alla pazienza solare dei terrazzi,
è argento che il vivente strania, una fuga
ed un fiato montano improvviso.
(…)
Ci si conosce per un nome oscuro nella comunità,
un soprannome preso da una storpia andatura
o da un dileggio di parente odioso, per le madri
resta un affare di secoli passati ed a venire.
(…)
Fondato sullo storto, farnetico angolo del labbro,
si consegna al passo memore,
al cotto, al nero lavico ed all’arenaria,
spiega nell’estensione del percorso
dalla badia all’orto i lumi come
dispositivi, neri e gaudiosi lumi in valle.
Ma rappresaglia costante al papavero onesto,
ma assedio infinito ed al finito un empio
frutto della morente, della sorgente…
(…)
Come una moneta di antico conio
che risuona a terra, nel distico
di un interstizio e lungo il tempo – nel tempio
sconsacrato d’ogni vicolo, senza
che un ciottolo leso e levigato possa
darsi pena della sottostante scure.
(…)
L’ascensione dei morti lo affatica,
pavidi santi esausti scosta
dalla vista, allontana – questo drappello
fedele che è la vigna, dopo gli anni
tra i carrugi, le nebbie, i laghi crespi:
elevarsi e a sostegno il mandorlo
il ciliegio il noce a fuoco, col vicino
che devasta anni e zolle, con un volto
d’adulterio che lo fonda.
(…)
Con la costante abrasione
dei nomi sulle lapidi
procedono inermi al consumo dei giorni.
Giungono in settentrione voci sul paese
abbandonato a pochi vecchi senza ascolto,
ad altri che, irridenti e leggeri lupi,
ne sbranano le miserie, gonfiano e succhiano
la santa minna d’ostentato spreco.
Arriveremo ancora nell’umido
dei solai, nelle cantine
ricolme – fuori dall’ingresso ci accucceremo
come cani pazienti, fiduciosi
nel ritorno del padrone e signore della casa.
(…)
Dal passo della Granciara,
utero secco, pietra guanciale dei parti infimi.
In tre, questuanti una veglia
sul passato ed in cerca di cave,
di fornaci, di acciottolati
miracolosi nella loro persistenza.
(…)
Neri suoni a costruire case,
dove l’acqua possiede il corso
dei corpi nell’agire. Nel mistero
della fondazione originaria,
dagli occhi verso oriente
l’ulivo con la vite ed ogni pietra
nell’utile erigersi.
Per vie d’acqua il legname
che tradimmo.
(…)
Con un sembiante di rappresaglia,
di volto morsicato, rappreso, groppo
trattenuto da un sotterraneo immaginato
tra il portale barocco e la gobba eterna
delle colline dinanzi, ad un braccio dalle acque
della visione, è il sonno che precipita
nella coltre meridiana, il tessuto avìto
di calore, da telai nascosti, da richiami.
(…)
Lumi notturni come una corona
cimiteriale, col novembre che taglia
i volti a sera e al sole cuoce. D’una
vita da continuare, d’una pena
e d’una gioia tutta da celare
raccomandano i morti e tutti i vivi
che nessuno osa giudicare, assolti
come la piena dal dirupo.
(…)
Lumi, segnali, segni, signature,
semi di luce, sementi del chiarore
illùne, un’assenza nel guscio,
nella vagina asciutta della terra,
insediamo per verba gli atti
dell’ostinazione della presenza vana, liberiamo
lo sguardo, ammutoliamo con i nostri morti.
(…)
Remote piante dell’“a poco prezzo”
d’un velo che si squarcia, recante mercanzia
del rimpianto sgranato allo strapiombo
della Granciara, sempre un volto accompagna
ogni ritorno, un canto irriducibile al calcare
della cava obliata, dello scalpello smesso.
Un consenso di sguardi ci contorna
ed una lama bionda dall’oriente.
Ad un commiato prossimi nel vino
che riconsacra il sonno e nuove veglie.
(…)
Nomi d’eremitaggi o di giudecche
abscondite, nomi di possidenze, un vuoto
d’aria nell’incendio, una ricchezza
di fuga nella brezza assicurata
lungo il vallone che riporta a Rina.
Chiediamo lumi sul sentiero del pesce.
(…)
Fontana ultima alla brocca e sorgente,
dove riappare il chiarore iniziale, da
insaccare per risarcire la fine del viaggio.
Aggiungono le madri altre parole,
note, nomi come cose, che premono
tra l’odore prossimo del forno, ostie
somministrate dalle donne,
da deglutire senza masticare
nel paese-altare antemarino.
Nomi da proferire come scale in pietra
che il piede nudo ascolta, divenuto
la leggerezza dell’infamia,
il segno del tradire degli eredi.
Nota: i toponimi citati in questi testi e nei seguenti sono tratti dall’esperienza
biografica dell’autore in un paese (Casalvecchio Siculo) ed in una
valle (dell’Agrò) del messinese.
Arie del volto
(solstizio ed oltre)
Nei giorni, entro cui siedo,
la luce avanza e si fa pienezza
di senso, di adesione alla terra,
al suono suo squillante di mani,
di legno, pietra e pane. Fortuna
che ti incontro e me ne avvedo.
…
(di notte)
Visibilmente questa notte piove,
al largo del cortile ch’è allagato
le terre hanno altre terre da vedere
ed i mari sorreggono il creato
nelle placente massime, severe
all’atomo o all’atollo che ora è dato:
rammenta, senza avviso, quasi danza,
d’un luminoso volto, in lontananza.
…
(un’aria, nell’aria)
A notte fonda ed in attesa i platani
invocano sia luce, sia risveglio,
vogliono salutarti intensamente,
stringerti le mani tra le mani,
assieme al fiume, ad inattesi
profumi, tutto uno stupore, come te,
come il tuo passaggio d’ogni giorno.
Infatti passi e il mondo ti saluta,
e anch’io, parlando sempre
una parola muta.
…
(ventoso)
Attraversano, i volti, un raro vento
di tramontana che spesso dà la scossa
alle dita – su, dimmi, il tuo volto è contento
per l’aria che insiste a farsi mossa,
che ti dipinge netta nella luce?
che ti cuce una veste perfetta?
Qui l’aria è ferma, impura
come è divenuta la pianura, ed a molto
di fresco e nuovo accenna
il vento, specie sul tuo volto.
…
(notturna)
Se il tuo volto scompare autunnale
dentro un fogliame notturno
tra il prato prossimo ed il fiume,
da nuovo ed impudente inquisitore
voglio imputare ogni colpa
alla durissima ombra delle case,
a strade strette e gonfie, a distrazioni
dal tempo, a bagagli avari, incongruenti
e sfalsati come l’occhio.
Poi la tua voce rimedia e riappari.
….
(notizie da una via del centro)
T’informo che alle volte il mondo è nuovo.
T’informo che ho saperi inusitati, su alberi
e su foglie, e sui cartoni lasciati dai dormienti,
e sugli spazi là intravisti all’alba.
T’informo pure che dimentico e ricordo,
che ho mani nascoste nelle tasche.
T’informo, inoltre, che – appena ieri -
indifferente andavo per burrasche.
…..
(a casa, senza i volti)
Nelle case di ieri sono i volti
senza la libertà del volto vivo,
ci ho parlato, in silenzio, senza ascolto,
ho raccolto ogni oggetto della vita.
Dal lungo buio, e dietro il muro grezzo,
sporgendosi di molto, il mare – oscuro.
Scavi tra Vernà e marina
Le fosse della neve di Mancusa
(forse altre ce ne saranno alla Traversa,
in faccia alla neve della Montagna)
facevano il paio all’epoca con le cataste
dei carbonai – e ce n’è, ce n’era di terra
da scavare per risparmiarsi il soffoco
funesto, e pure ora nel sole o in un’ombra
che a volte è il buio pesto.
…
La rara pioggia scava, dentro il secco:
ci sono rare presenze in quel che resta,
il verde verso Rina e il grigio delle Rocche.
L’occhio divora tutto, non ha testa
ma sangue del possesso, verso il mare.
Non la parola, ma un lento procedere
dello sguardo, quasi un adorare.
…
Saranno state formiche od un fedele
gatto a scavare, nei pressi del melograno,
sopra l’Acqua Ruggia, intorno al sonno
improvviso dell’Onofria, improvviso e per sempre;
da poco aveva portato il vino buono
alla centenaria, aveva goduto della vista
del mare di fronte, attraversato lo Zorio
dei suoi immensi amori.
….
Siamo, nei padri, dentro le visioni
e, nelle madri, dentro carni e voci.
Come uno scavo d’aria dalle Rocche
precipita e ramifica al Bastione;
dopo che un vino d’alto ha consumato
la parola, ad un tacito decreto
della verzura consentiamo, restiamo
ben impiantati nella terra smossa
dai passi, dal passaggio degli umani
dopo il rasserenato dopopioggia.
Siamo, stiamo, con un corpo
di fatica estesa, da millenni.
Con cane immaginario e vero
Sanguinava d’amore nel torrente
asciutto, correndo appresso al cane -
gli si riaprono, nel tempo rinveniente,
le ginocchia ferite, rovine sul pietrame.
Nel chiaro che infuriava, quale fame
cardava il sole, fuori da lini e persiane -
quale cane rincorra oscuramente
ora da un assolato di epoche lontane,
eterno dubbio, non certo è il cane dei parenti,
forse è l’animale di un rapace ammodo,
il piano ragionato dei violenti,
il legale disbrigo d’ogni nodo.
Talora l’aria richiama quel latrare:
oltre il verde morente, apriva al mare.
Cimitero di Ciappazzi
Anime pregne, torsi seppelliti
coi corpi al cimitero sul paesaggio,
niente salvezza, esseri sfiniti
dalle sviste di ieri a quelle d’oggi.
Gli occhi qui vagavano smarriti
della prossima fine del coraggio:
poi, accompagnarli tutti, ad uno ad uno -
vinse un paesaggio sull’ansia di ciascuno.
Un vanto
L’“eu” dell’angelo, il “tau” della passione
hanno deciso principio e soccombenza,
infatti declinammo ogni occasione
nel meridione al tempo d’innocenza.
Ascoltiamo, c’è struscio d’ossessione
nel tempo assuefatto a quieta assenza.
Dei segni cancellati resta il vanto
d’essersi prodigati, senza schianto.
Nota Biobibliografica
Enrico De Lea (1958) dal 1988 vive nell’alto milanese, originario di quell’area della Sicilia tra Messina e la Valle d’Agrò (in particolare Casalvecchio Siculo), a nord del taorminese.
Pubblica nel 1992 la raccolta Pause (Edizioni del Leone) e nel 2009 la raccolta Ruderi del Tauro (L’Arcolaio Editore, Finalista al Premio Lorenzo Montano 2010 - Verona).
Suoi inediti sono stati premiati al Premio Poesia di Strada 2010 (Macerata – Festival Licenze Poetiche).
Con una raccolta inedita è stato finalista al Premio Miosotis 2010 – Edizioni d’IF – Napoli.
Nel 2011 è stato, altresì, finalista al Premio Lorenzo Montano 2011 – Verona, con la raccolta inedita “La furia refurtiva”.
Suoi testi sono apparsi sulle riviste Specchio (de La Stampa), Sud, Atelier (su cui è stata anticipata Acque reali, poi sezione di Ruderi del Tauro); in rete, suoi testi sono apparsi su La poesia e lo spirito (di cui è collaboratore), su Rebstein – La dimora del tempo sospeso, Nazione Indiana, Compitu re vivi, Imperfetta Ellisse, Clepsydraedizioni, Mutter Courage, Filosofi per caso.
Il suo blog da presso e nei dintorni (delea.wordpress.com) raccoglie parte della sua produzione.