Ricordo, all’università, un corso di sociolinguistica.
Erano gli ultimi anni del grunge, e più mi appassionavo alla questione e più mi rendevo conto che in qualche maniera il cosiddetto consumismo aveva attivato tutta una serie di anticorpi che, nel giro di poco tempo, lo avrebbero salvato da qualcosa potenzialmente capace di distruggerne la meccanica.
I ragazzi di Seattle, all’inizio degli anni novanta, avevano cominciato a vestirsi utilizzando vecchie camice dei loro nonni, scarponcini a basso prezzo usati per girare nei boschi, cappelli di lana di seconda mano e giacconi non di marca. Da Seattle il movimento (che movimento neppure era, essendosi sviluppato in maniera spontanea e senza direttive sulle note di gruppi musicali che ai tempi sradicavano il rock dalle patinature degli anni ottanta) si sparse in tutto il mondo. Sempre più giovani dei paesi occidentali cominciarono a voltare le spalle alle grandi marche e a vestirsi riutilizzando vecchi capi appartenuti a chi li aveva preceduti. L’inizio di una rivoluzione.
Poi successe qualcosa.
Successe che i negozi di marca, i grandi brand, gli stilisti e le grandi case di produzione cominciarono a mettere sul mercato in prima persona, e a prezzi non sempre accessibili, magliette, giacconi, cappelli di lana e scarpe in stile grunge. La vecchia camicia a quadrettoni del nonno boscaiolo, che il teenager aveva deciso d’indossare in risposta alle regole del marketing e della moda, figurava ora sui manichini nelle vetrine dei negozi del centro. Star, personaggi televisivi, studenti. Tutti vestivano grunge. Fu la fine, non solo del grunge come fenomeno culturale e di costume ma anche come fenomeno musicale (il suicidio di Kurt Cobain ne diverrà il simbolo più evidente) e l’ennesima vittoria del sistema dei consumi.
Niente di nuovo in fin dei conti: non era l’Impero Romano divenuto Cristiano? Non era il Rinascimento divenuto Manierismo? Ma il corso di sociolinguistica mi fece capire l’importanza di saper vedere come e quando e perché un sistema dominante sceglie d’inglobare quello che a un certo punto capisce di non poter più combattere o eliminare, riuscendo così a svuotarlo della sua carica controculturale o potenzialmente insurrezionale.
Poteva il grunge salvarsi?
Non lo so. Oggi però mi pongo la stessa domanda mentre guardo Blu che ricopre i suoi murales della Bolognina per difenderli da una mercificazione che la maggior parte degli street-artist hanno sempre combattuto (i ‘temi’ stessi dei murales ne sono la prova più evidente).
Per Bologna è una perdita, certo, ma è anche una riaffermazione, una vittoria di chi ancora crede che l’arte (e l’arte di strada in particolare) non debba scendere a compromessi con chi l’adotta solo per snaturarne il senso più profondo.
Sottrarre agli sguardi qualcosa è anche una maniera per farcene sentire la mancanza e comprenderne il valore, oltre che per darci modo di riflettere ancora una volta su come un atto di ribellione debba continuare ad esserlo sempre e comunque, soprattutto quando, oggi come ieri, si cerca di trasferirlo dentro le vetrine ben illuminate di qualche negozio del centro.
A me piace salutarle così, le opere alla Bolognina di Blu, con indosso una vecchia camicia a quadrettoni e con un cappello di lana in testa: e con la speranza che da un’opera cancellata oggi, ne possano nascere centinaia e centinaia d’altre domani .
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