Damiano Caruso, anni venticinque, nato a Ragusa, in Sicilia. Samuel Sanchez Gonzales, anni trentacinque, nato a Oviedo, in Spagna. Nel loro corpo c’è sangue caliente, se vogliamo affidarci ai soliti luoghi comuni. In realtà non hanno molto da spartire, loro due. Ma si sa, nel ciclismo, si dividono le emozioni, come le sconfitte, quasi fosse il pane quotidiano. Damiano corre per il team Cannondale e stava già organizzando le sue vacanze quando è stato chiamato dalla squadra per disputare il Giro d’Italia. Per l’improvviso forfait di uno sfortunato Ivan Basso, al siciliano sono stati cuciti in fretta i gradi di Capitano. Una responsabilità grande, bella, importante, da un giorno all’altro, come capita spesso nella vita. Samuel, che tutti chiamano “il vecchietto” e in realtà ha un sorriso da far invidia a certi modelli delle riviste glam, pensava al Giro da inizio stagione. Lui che ha sempre con sé un orecchino che gli ricorda il suo successo olimpico, era l’uomo di classifica della Euskaltel-Euskadi.
Sogni. Improvvisi o programmati. Sempre sogni. Che la Corsa Rosa ascolta ogni anno.
Ma le cose non vanno sempre come ce le aspettiamo. Il Giro è duro, freddo: Samuel e Damiano non hanno sempre le gambe per stare con i migliori e questo si paga sempre. Il ciclismo, oltre a essere uno sport tremendamente umano, assomiglia a una piccola, crudele, selezione naturale. Non importa che giorno sia, importa che tu sia il più forte.
Ma ieri, ieri era diverso. E’ difficile dire chi ha la testa o il cuore per una cronoscalata, per una sfida in salita contro sé stessi e contro il tempo. Da Mori a Polsa sono venti chilometri o poco più e, forse, quando Damiano Caruso, piegato sulla bicicletta, vede scivolare via l’asfalto, mette assieme una piccola speranza. Le gambe girano e la Cannondale si merita una vittoria di tappa. Se lo meritano i suoi compagni che hanno avuto fiducia in lui. “Un regalo” dice quando passa sul traguardo e il cronometro segna il miglior tempo, “vorrei fare un regalo alla squadra”. Lo dice timidamente, come se volesse tacere per scaramanzia. Sì, perché i traguardi delle sfide sul filo dei secondi sono così: impietosi, snervanti, con gli occhi puntati ai piccoli numeri che scorrono e decretano senza sosta l’inesorabile scorrere del tempo.
Sette minuti, forse otto ha fantasticato sulla sua vittoria, Damiano. E’ arrivato Samuel a portargli via il primo posto perché anche lui, su quel traguardo che è, ancora una volta in questo Giro, bagnato dalla pioggia insistente, sogna di rifarsi, di prendersi la tappa. Dire che sì, ha perso l’opportunità della rosa ma non quella di dimostrare che a trentacinque anni si può ancora vincere. Quarantacinque minuti e ventisette secondi. Non si può più tornare indietro per fare meglio. Quelli sono i numeri di Sanchez. I numeri che potrebbero consegnargli la tappa e uno solo è l’avversario che fa paura: Vincenzo Nibali che non ha mai smesso di pedalare con tutta la grinta che ha in corpo. In maniche corte, sotto l’acqua, Vincenzo sembra voler prendersi la vittoria, oltre che assicurarsi l’adorata maglia rosa fino a Brescia.
Ma Samuel che guarda la sua progressione sullo schermo, poco più in là dell’arrivo, ha un sogno più modesto e i suoi occhi attenti lo riflettono tutto quanto, per intero. Non sa se la sua è illusione o speranza ma, quando Nibali, sta per arrivare al traguardo, i numerini del cronometro sembrano scorrere troppo lenti. Tempo. Tempo tiranno e benevolo. Tempo che non aspetta e tempo che sembra, per dispetto, non passare mai.
Un pugno al cielo, sotto il diluvio di Polsa: è quello di Vincenzo Nibali, padrone del Giro d’Italia. Quarantaquattro e ventinove sono i numeri che il cronometro ha regalato al siciliano dell’Astana. Numeri che più nessuno potrà tentare di superare. Numeri che, fermandosi, hanno fermato anche il sogno di Samuel Sanchez. L’espressione delusa del suo volto, all’arrivo della maglia rosa, assomiglia a certi tristi ritorni alla realtà, dopo aver assaggiato un pezzettino di sogno. E’ tremendo aver assaporato qualcosa dal sapore speciale e sentirsi dire che non se ne potrà più mangiare.
Qualcuno diceva che i sogni sono come le bolle di sapone, basta un tocco per far svanire la loro delicata superficie di mille colori. Ma questo paragone non è bello. Soprattutto per chi, per i sogni, stringe i denti, lotta e, a volte, perde. Mi piace dare ragione a Davide Capelli quando dice: “Meglio vivere un sogno, come quei palloncini colorati che fuggono di mano ai bimbi e volano alti nel cielo fino a scomparire, piuttosto che rimanere legati ad un filo e sgonfiarsi lentamente in una stanzetta buia.” Penso a quei palloncini rosa che, nel sole o sotto la pioggia, a ogni nuova partenza, vengono lasciati volare via. Sono un po’ così tutti i nostri sogni: sono veri solo se lasciati liberi. Liberi di essere trascinati dal vento o portati in alto. Liberi di rimanere aggrappati ai rami di un albero o raggiungere le nuvole. Liberi. Niente stanzette buie per i sogni di Samuel e di Damiano, niente piccoli cadaveri raggrinziti di desideri insoddisfatti o di obiettivi falliti. Niente prigioni per i sogni. E il ciclismo lo sa: ognuno di quei ragazzi che, tutte le mattine, infilano gli scarpini e attaccano il proprio numero sulla divisa sanno che un sogno, per quanto improbabile o inconcepibile, bisogna viverlo fino in fondo. Con il cielo azzurro o gonfio di pioggia, con una vittoria o una sconfitta. Fino in fondo. Tutto il resto lo deciderà la vita.