Cari amici latinisti, con la ripresa della nostra rubrica il vostro vocabolario sarà ormai uscito dalla libreria e a colazione mangerete latte e declinazioni. Oggi ho deciso di parlarvi di DAMNATIO MEMORIAE, un’espressione con cui attualmente si usa indicare qualcosa o qualcuno di cui o non si vuole far menzione o si vuole cancellare il ricordo, ma – ricordiamo – sempre con garbo eh.
Ed è proprio questo il significato autentico dell’espressione, parafrasabile in «condanna della memoria». Essa, tuttavia, non è una semplice locuzione latina, ma costituisce un’espressione tecnica del linguaggio giuridico romano, una pena erogata post mortem che sanciva la cancellazione del ricordo di un personaggio che si era distinto per un comportamento ostile o disdicevole nei confronti di Roma
e, quindi, nella distruzione di ogni testimonianza artistica o letteraria che potesse tramandarlo.
Il provvedimento della damnatio memoriae era nato in età repubblicana con i più positivi intenti. Si pensava infatti che, eliminando il ricordo delle azioni riprovevoli del passato, se ne preventivasse il ripetersi, anche se la storia ora c’insegna che è proprio il ricordo delle grandi tragedie ad evitare che esse si verifichino di nuovo. In età imperiale l’abuso della damnatio memoriae provocò una degenerazione di questa pena, con cui molti imperatori iniziarono a colpire indiscriminatamente i loro predecessori spodestati, a prescindere dal loro aver agito bene o male. La grande eco che aveva la pena della damnatio memoriae la risentiamo anche noi, tanto che molti imperatori a cui fu comminata sono ancora oggi avvolti da un’aura oscura, nonostante gli studiosi abbiano spesso sfatato le leggende nere attorno a queste figure. Alcuni nomi basteranno: Caligola, Nerone, Domiziano e Commodo.
Ad esempio Caligola. Il suo regno fu breve (37-41 d.C.), ma la damnatio a cui fu soggetto lo rende tristemente famoso ancora oggi, soprattutto perché la storiografia non si è risparmiata in giudizi sprezzanti, donandoci il ritratto di un personaggio mentalmente instabile e autocratico.
Famoso è l’aneddoto secondo cui Caligola avrebbe fatto senatore il proprio cavallo. Che questo e altri episodi singolari siano veri o no, essi sono rivelatori di una gestione del potere da parte di Caligola che non andava bene al resto della politica romana e che gli costò un’onta che dura da quasi duemila anni. Il fatto è che Caligola era radicalmente diverso dai suoi due precessori, Augusto e Tiberio: mentre questi rimasero più legati alla tradizione romana, per cui l’imperatore era un primus inter pares (primo fra pari), Caligola cercò di introdurre a Roma la figura tipicamente orientale dell’imperatore-monarca assoluto e dio vivente, tanto da voler ficcare in ogni tempio dell’impero una propria statua (che poi sarebbero andate tutte distrutte con la damnatio). Ovviamente un tale metodo di governo non andava certo bene al senato e avere così tanti nemici a casa propria non fece bene neanche a Caligola, che divenne paranoico e iniziò a vedere congiure a destra e manca, mandando a morte chiunque lo guardasse storto, che fosse strabico o no. I suoi discorsi divennero sempre più piccati, sia coi suoi compatrioti senatori romani
sia con le ambascerie straniere
Il povero Caligola, ahimè, si era dimenticato di una cosa, cioè che il vero giudizio su un imperatore arriva solo dopo la sua morte (nel suo caso dovuta effettivamente a una congiura) e che a emetterlo erano i suoi più acerrimi nemici, i senatori. Infatti alla morte di un imperatore spettava al Senato decretare, se era stato un bonus princeps (un buon imperatore), l’apoteosi, con cui si giudicava positivamente il regno appena concluso e si concedevano onori divini al defunto, o, se era stato un malus princeps, la damnatio, con cui si condannava l’operato dell’imperatore e se ne stabiliva la cancellazione totale (proprio totale, perché la damnatio non prevedeva solo l’eliminazione delle immagini, ma anche l’annullamento di tutte le leggi promulgate dal condannato).
Come detto la damnatio andava soprattutto a colpire imperatori crudeli alla fine di un regno di repressione, spesso conclusosi in maniera tragica, con l’uccisione cruenta dell’imperatore e lo sfregio del suo cadavere. Fu questo, ad esempio, il caso di Eliogabalo, imperatore dal 218 al 222. Il suo regnò finì a soli 19 anni, quando i pretoriani (la guardia personale dell’imperatore) lo decapitarono, lo denudarono e gettarono i suo cadavere sfregiato nel Tevere. Ma vi sembra il modo di trattare un imperatore?
Il bagno nel Tevere da morto doveva aver riscosso successo, se alcuni secoli dopo lo stesso trattamento toccò anche a un papa. Siamo nel IX sec. d.C., l’impero romano è caduto e la damnatio non esiste più ufficialmente, perciò si decise di ricorre a un più giusto processo, però a un cadavere. Nel gennaio dell’897 il nuovo Papa Stefano IV intentò un processo post mortem al suo predecessore Formoso (891-896) con chiaro fine politico, perché i due sostenevano fazioni opposte nelle guerre intestine per il trono negli imperi dell’Europa continentale. Stefano fece riesumare il cadavere di Formoso, lo fece vestire con gli abiti pontificali e lo accusò. Indovinate l’esito? Come nell’antica damnatio tutti gli atti varati da questo pontefice ritenuto indegno del suo ruolo furono vanificati, tre dita della mano (quelle usate per le benedizioni) gli furono amputate e il suo cadavere fu gettato nel Tevere. Ma ti pare? Un processo a un morto? E pure Papa.
Salvete et valete amici!