La categoria della commozione, per chi legge o scriva poesia, è sicuramente una delle più rimosse. E si può ragionare sulle cause. Chi scrive con alle spalle una formazione culturale significativa, ha ben presente che la poesia italiana è poesia di sentimento. Una bestia nera, dunque, da tenere a bada con le armi dell’estraneazione o con quelle, ben più sicure, di un cosmopolitismo spesso di moda. Chi scrive sa benissimo che subito dietro le porte, c’è il rischio di una critica che può virare facilmente verso l’accusa del sentimentale.
Chi legge, da parte sua, ha in mente categorie alquanto storicizzate entro le cui gabbie tende a ritagliare istintivamente le scritture, mai aspettandosi che, dalla lettura di un libro di poesia possa scaturire, eventualmente, anche un liberatorio com/muoversi – la poesia ha chiesto in maniera perentoria che da parte del lettore ci fosse una predisposizione a intendere cum intellectum, dimenticandosi che questa è una fruizione di poetica, piuttosto che una fruizione e basta.
È chiaro che la qualità del godimento estetico è soggettiva e troppe sono le variabili perché si possa azzardare un discorso di sintesi; ma è chiaro anche che, la soggettività della percezione estetica è una categoria lungamente teorizzata da due secoli di poesia, quindi storicizzabile nelle sue cause e nei suoi risvolti. Che esista ancora la possibilità di un comm/muoversi, molte arti e situazioni artistiche lo hanno dimostrato, ad esclusione della poesia, dove la percezione sembra debba avvenire a calor freddo, lontano dalle esagitazioni e dagli sconvolgimenti emozionali, pena, spesso, la vergogna.
Conseguenza di questo, a mio avviso, è la perdita di “grandiosità” del progetto della parola. Pur così limitata nei mezzi – l’arte più povera, forse, dopo la danza e il canto – la poesia concentra, in maniera esponenziale, i movimenti di un infinito sentire, di uno scoppio di galassie non espressamente dichiarato, eppure sottinteso alla voce; tutto ciò che il movimento del magma si porta dietro; persino la sua stessa distruzione. Se la poesia, dunque, rallenta, è perché l’innominabile sfugge e la corsa folle distrugge. Cosa dovrebbe fare la critica, se non individuare le forze che tengono in tensione l’organismo testuale? E cosa dovrebbe permettere la poesia se non il coinvolgimento destinale di un lettore ipoteticamente in grado di disgregare le tensioni che si sono coagulate nella parola?
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Pochi libri mi hanno commosso come questo, nel senso di una lettura svincolata dal “sottotesto mentale”, e cioè da quel parallelismo interpretativo che scatta automaticamente nella testa per abbassare il rischio dell’intrusione, la paura dell’ “oggetto” culturalmente diverso – nel nostro caso la scrittura -Quando una lettura mostra il tentativo di cancellare maschere e steccati, tutti meccanismi di difesa che il lettore non ingenuo mette in campo per proteggersi dai messaggi che lo sviano dal suo “status” – la lettura è, di per sé, arma offensiva rispetto alla quiete del mondo – vengono a cadere.
Quindi il libro di Mencarelli smuove, permette una partecipazione aperta, un abbassamento delle maschere retoriche, appellandosi al senso di un racconto dai forti risvolti antropologici: essere padre, essere stato figlio, dare la vita e vederla togliere, invocare l’istinto del sangue, di una paternità fortemente voluta come stato di compimento dell’essere.
Dunque c’è un bambino che nasce, che a due anni non parla ancora, la paura della malattia, le formule crudeli per definire la malattia, quasi a scavalcare l’idea che l’essere possa essere definito solo fuori da ogni malattia, nella durezza della Legge che, pur curando, definisce e schematizza.
C’è un bambino che non nasce, non accolto dal mondo, e che fortemente rimane nell’esperienza della paternità – presenti si può essere anche nella sagoma appena tracciata della propria immagine, che è possibilità comunque, desiderio non esaudito di essere, per sé e per gli altri -.
C’è una bambina che nasce, una bambina fiore, accolta come si può accogliere una ricompensa, una promessa.
C’è la madre grembo, liquida, interna, e ci sono gli altri, il mondo: un fratello innanzitutto, i famigliari, la faccia da pugile del padre.
C’è, dunque, il fatto che non si può nascere nel deserto dai vasti orizzonti, fuori dalle mura di una città, dai confini di una casa. Chi nasce non può essere solo, deve appartenere a qualcuno, a due braccia, a un seno. Al limite, a due soli occhi, due, ma che siano finestre sul mondo, e che sappiano dire che ogni cosa è necessaria e che l’amore se ne fotte di tutto, soprattutto da chi dice che cosa debba essere l’amore.
L’amore chiama, non solo realizza il destino del figlio ma anche quello del padre, il padre è per il figlio e il figlio è nel padre, dopo che è stato nella madre.
La concezione e la nascita, ma anche il rischio del disfacimento del progetto, sono tutte tappe di uno scoppio che carica la parola e la sottopone alla responsabilità del senso – responsabilità verso il figlio e verso la parola – “Figlio è darsi in pasto al prossimo”; figlio che “senza la parola non è mondo/e il tuo tempo procede/fa dei mesi due anni esatti,/non parli e ormai dovresti”.
Questo fatto reale – un bambino che a due anni ancora non parla – si fa metafora di una lingua del mondo che non dice, non condivisa e congelata nella sua stessa notte.
Sebastiano Aglieco