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Danilo Dolci: uscire dal tempo primitivo

Creato il 26 giugno 2014 da Casarrubea
1963, piazza di Roccamena (Archivio Casarrubea)

1963, piazza di Roccamena (Archivio Casarrubea)

La vita e l’opera di Danilo Dolci sono un esempio di come è possibile cambiare “costringendo” alla saggezza gli increduli, i sottomessi ridotti al silenzio, le autorità irresponsabili.
Probabilmente fu l’impressione dell’estrema miseria che ne ebbe da bambino, seguendo gli spostamenti del padre capostazione, a farlo tornare a Trappeto, vicino Partinico, un piccolo borgo marinaro tra le province di Palermo e Trapani.
Seguiva, si capisce, una sua spinta interiore:la volontà di rendere la vita coerente coi princìpi, il desiderio di conoscere non astrattamente, ma nel vivo della realtà, l’innata sensibilità alla sofferenza, soprattutto a quella degli inermi che scontano le ingiustizie del mondo.
La prima esperienza, abbandonati gli studi di architettura, è quella di Nomadelfia con don Zeno Saltini, a Fossoli, un ex campo di concentramento nazifascista, dove orfani, ragazzi sbandati, ex ladruncoli, potevano ritrovare una casa-famiglia.
Dopo quasi due anni <di una prima profonda esperienza-conoscenza diretta>, confermato nei suoi propositi e sulla scorta della domanda che sempre più lo assilla -<e il resto del mondo?>-, abbandona, lui triestino, il Nord, e si trasferisce definitivamente in Sicilia<per capire un mondo che nessuno si sforzava di ascoltare>.
Credo che il rovello spirituale di Danilo Dolci sia stato quello di “pretendere” un compiuto rispetto dell’essere umano, ricercando i fondamenti di una possibile liberazione morale, oltre che materiale:<Aspiravo –dice in “Ciò che ho imparato” – a “nuovo cielo e nuova terra”…volevo scoprire l’anima della vita>.

A pochi mesi dal suo arrivo a Trappeto, nell’ottobre del ’52, assume la forma assurda e tragica della morte del piccolo Benedetto Barretta per denutrizione.
E’ il primo digiuno di protesta, l’inizio di un infaticabile impegno per far risorgere consapevolezza e speranza <in una delle zone più misere e più insaguinate del mondo>.
Sono gli anni del banditismo, delle stragi dei contadini, della mafia latifondista e politica, della negazioni di bisogni primari:lavoro, istruzione, cibo, salute, violazioni di diritti umani che corrispondevano all’asservimento padronale e mafioso.
L’acqua, ad es., l’acqua, che di nuovo oggi c’è chi manovra per farne proprietà privata, era in potere della mafia, che la gestiva secondo suoi torbidi interessi, secondo amicizie ed alleanze, o costringendo “gli altri”, la massa dei contadini, alla subordinazione e all’ossequio.
Il giovane Dolci comincia a capire il “sistema”, e si rende conto che l’acqua, in un’economia estesamente agricola, è il nodo da sciogliere per creare una breccia nel dominio semifeudale.
E’ la grande sfida della diga sul fiume Jato, l’opera alla quale i siciliani legano immediatamente il nome di Danilo:un decennio di proteste clamorose, di scioperi alla rovescia, di studi sapienti e mirati, di conferenze che chiamano in causa l’inerzia dei governi.
Ma sono anche intimidazioni, denunce, processi, galera.
I lavori di costruzione iniziano nel febbraio del 1963.
Frattanto la figura di Danilo Dolci prende rilievo nazionale ed europeo. Attorno alle sue iniziative si raccolgono numerosi giovani volontari, intellettuali e studiosi di prestigio che credono nella necessità di <passare da un mondo autoritario e frammentato ad un mondo pluricentrico e coordinato>.

Nel mentre che continua la partecipazione attiva alla denuncia di ogni forma di violenza, di degrado, di umiliazione dell’uomo, sorgono l’Asilo-casa per i bambini più bisognosi, il Centro studi e iniziative, Radio Libera Partinico, “la radio dei poveri cristi”, la prima radio libera in Sicilia(libera, non privata), immediatamente chiusa dalle autorità.
Il Centro di Borgo di Dio (gloria delle parole) a Trappeto, diviene un laboratorio di elaborazione teorica e pratica dove prendono la parola non solo gli studiosi più qualificati, ma anche i diretti interessati:la gente del luogo, i contadini, i disoccupati, gli analfabeti, le tante famiglie abbandonate a se stesse, taluni ex banditi.
<La mia vita è la tua, la mia vita non può non essere anche la tua>, è un principio fondamentale nell’operare di Danilo Dolci, morale, di metodo, di conoscenza:dar voce agli ultimi, partecipare dal di dentro alla loro vita, valorizzare le loro competenze e apprendere dalla loro saggezza, portare le cose più alte a confrontarsi con la loro cultura, ascoltare e costruire insieme.
Si trattava davvero, in quel tempo e in quei luoghi, di “portare i disperati alla luce”, perché, oltretutto, bisognava infrangere l’atavica diffidenza e lo scetticismo dei siciliani.
Ma <ciascuno cresce solo se sognato>, e il “sogno”, oltre a condizioni di vita più degne, era quello di far crescere <un uomo nuovo>, lo scopo vero al fondo del pensiero e dell’opera di Danilo Dolci.
Non è solo la persistente attenzione alle problematiche pedagogiche, è la trama stessa dell’attività, il modo stesso di interagire, a sollecitare la riflessione e la coscienza personale, a rivedere punti di vista e abitudini mentali, a riconoscere veridicità a quel principio basilare dettato da Gandhi: <Sii tu per primo quel cambiamento del mondo che vorresti>.
Il possibile “cambiamento” sta per Danilo Dolci nel rapporto intrinseco tra individuale e collettivo, nel conoscere meglio se stessi e l’ambiente in cui si vive, nello scoprire che <c’è la possibilità di vivere per tutti>, nel <rifiutarsi ad ogni professione ed occasione che ci impegni in sfruttamenti ed assassinii di ogni genere>.
La violenza, sia fisica che verbale, è bandita senza compromessi, perché<quando dici no alla violenza e alla menzogna, la lotta di liberazione è già cominciata>:c’è la ferma condanna dell’errore, ma respinge l’annientamento e l’umiliazione di chi lo compie, fosse anche l’uomo più bieco, perché <non ci sono nemici>, ma uomini che devono essere indotti al buon senso e al senso di responsabilità.
E’ un’eco della “Pacem in terris” di Giovanni XXIII: “non si dovrà mai confondere l’errore con l’errante”, un insegnamento che oggi si tende gravemente a trascurare.
E’ l’acume di Pierpaolo Pasolini a scoprire, già in alcune poesie giovanili (’51) di Danilo, un fermento religioso che identifica “Dio con il prossimo come immediata collettività…ha riscoperto L’Altro nei più poveri, soli, diseredati…”.
Invero, Danilo Dolci è uno spirito religioso che opera laicamente, è l’uomo che vorrebbe coniugare un senso mistico-missionario della vita con la ricerca tutta terrena della verità.
La morale, ad es., non può essere imposta dall’esterno, perché risulterebbe una sovrapposizione ben presto vanificata dall’incontro con la realtà; è, invece, un impegno quotidiano, deve scaturire dal dialogo, dal confronto con l’altrui esperienza, dal lavoro proiettato sul sociale, dalla ricerca di un mondo più sano, insomma, dal mettere l’uomo nelle condizioni di poter scegliere liberamente il bene e non il male.
D’altro canto, il principio evangelico dell’amore per il prossimo è indispensabile perché<senza la carità, il sapere tende a divenire inumano>.
Che nell’animo di quest’altro maestro del Novecento ci fosse, al di sopra dello scopo umano, un senso divino dell’operare, ce lo dice indirettamente lo storico Giuseppe Casarrubea, che in quegli anni conobbe Danilo e collaborò con lui:-Tra i suoi grandi maestri citava: Cristo e Lenin, Gandhi e Capitini, San Francesco e don Zeno Saltini-.
E, del resto, è testimonianza comune che “Danilo fu sempre povero, e non disdegnò mai di esserlo”.

Nicola Lo Bianco
Articolo per la rivista “Famiglia in dialogo” -16 maggio 2007-


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