Magazine Cinema
2011
Mondadori; 250p.
Stesa sulla moquette, sono ridotta come il cibo freddo che mi circonda: una vita consumata solo in parte. Sprecata. Che presto verrà consegnata alla spazzatura. Il mio viso gonfio, livido, e le mie labbra blu, altro non sono che un agglomerato di grassi rancidi, come gli anelli di cipolla stantii e le patatine vecchie. La mia preziosa vita, trasformata in un ammasso di liquidi rappresi e coagulati. Proteine quasi secche. Un ricco banchetto sfiorato a malapena. Giusto assaggiato. Rifiutato e messo da parte e solo.
Attenzione: gli spoiler da adesso in poi non mancano.
L’uscita in formato economico dell’ultima fatica di Palahniuk è stata una buona occasione, almeno per il portafoglio, di riprendere quel filo che il sottoscritto aveva interrotto con Gang Bang (2008), e tale interruzione non fu dovuta ad una saturazione personale dei temi palahniukiani che invece ha colpito molti dei suoi lettori a quanto si dice in giro, semplicemente sia Pigmeo (2009) che Senza veli (2010) mi erano apparsi solo che al leggere della sinossi lavori stanchi, spremuti e senza appeal. Con Dannazione lo spirito di ammirazione che risiede in me nei confronti del ragazzone nato a Pasco ha voluto che gli si concedesse un’altra chance, e, senza troppi giri di parole, il movente principale è stata la mera trama che sulla carta si presentava come un’ idea cazzutissima, roba da far asserire: “nelle sue mani potrebbe uscirci un piccolo gioiello all’arsenico”. E in effetti su almeno un aspetto Palahniuk si conferma: il libro diverte, che è probabilmente una delle massime espressioni acritiche esprimibili però, oh, a leggere le disavventure nell’oltretomba di Madison Spencer ci si diletta piacevolmente, ma, e di ma ce ne sono un bel po’, salta agli occhi già dalle prime righe la cristallizzazione stilistica dell’autore, il che è legittimo e concesso ad ogni scribacchino che campa scrivendo, tuttavia in Palahniuk il non-rinnovamento del proprio usus scribendi produce una diminuzione della sua rinomata carica eversiva; certo, la storia è stipata di tic odierni, di caricature eccessive, di turpiloqui, di smanie sessuali, ed è raccontata attraverso la solita cifra ridondante che si poggia sulle eco strutturali riproposte a cadenza regolare (l’incipit di ogni capitolo; le frasi: “ebbene sì…” o “e il senso è…” o “sarò anche una ragazzina di 13 anni ma…”), eppure, nonostante si colga anche una certa carica ludica da parte di Mr. Chuck, tutto è… come dire, già letto, Palahniuk ricalca lo schema che conosce a memoria e pur rimescolando i fattori viaggia comunque col pilota automatico.
Chi scrive era molto curioso su come venisse approcciato l’ambiente “inferno”, e il concreto dispiegamento ha generato un pizzico di delusione: l’inferno di Palahniuk non si discosta dalla visione classica che si ha del posto, non è uno scenario filologicamente dantesco ma i meccanismi che lo regolano sono suppergiù quelli: chi arriva lì è perché nella sua vita si è comportato male (bastano anche 500 + 1 colpi di clacson) e la dannazione è eterna vessata vieppiù da demoni e compagnia bella che non esitano a torturare i malcapitati, insomma un panorama che non coglie affatto di sorpresa, fortunatamente ci sono degli spunti fantasiosi che forniscono sfumature ravvivanti, vedasi la questione dei call center, i “segnali” dei morti ai vivi sottoforma di emicranie o dolori di vario tipo e la descrizione morfologica degli scorci paesaggistici che si possono trovare laggiù. Ma la visione abusata degli inferi non è il problema più urgente perché leggendo ci si imbatte in passaggi raffazzonati (tipo: non è spiegato come mai la gigantessa in estasi post-masturbatoria porta il gruppo di ragazzi morti proprio negli uffici del call center) o evidenti forzature “guardacasistiche” (guarda caso Goran muore e viene subito visto da Madison, guarda caso il telefono che fa numeri a random chiama proprio casa Spencer, guarda caso i vivi moribondi con cui Madison stringe amicizia poi vengono immediatamente incontrati nell’aldilà), ma tutto ciò non sarebbe un male così grave se non ci fosse il Pasticcio che arriva con il colpo di coda dove Satana diventa demiurgo assoluto di quanto è successo e succederà alla ragazzina protagonista, sicché si tenta di instillare gocce metanarrative dove Palahniuk (/Satana) trascende il racconto nell’azzardo di stupire attraverso il confronto tra lo scrittore e la sua creatura; tale stratagemma concepisce due riflessioni: la prima è che riprendere il cuore di un’opera come Cavie (2005) che ogni scrittore o pseudo tale dovrebbe tenere sul proprio comodino per merito della sua disarmante, esaustiva ed esausta rappresentazione del binomio narratore-narrato, appare un contentino insufficiente per dare una direzione precisa al libro, mentre la seconda è che scegliendo tale espediente vengono automaticamente legittimate tutte le falle, le risposte non date, i vuoti che brulicano nella lettura, dire che il signore delle tenebre ha inventato ogni punto della storia ha la stessa valenza di piazzare un “era tutto un sogno” in fondo ad un racconto zeppo di situazioni poco credibili.
Vabbè, e mo’ basta con le critiche: Dannazione diverte, a chi importa di tutto il resto?
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