Di Fulvio Lo Cicero
Nella Divina Commedia, nella Vita Nova e nelle Rime, ci sono numerosi riferimenti a cadute, stati di malessere, svenimenti che hanno indotto alcuni studiosi a prendere in considerazione l’ipotesi che Dante Alighieri potesse soffrire di epilessia o di narcolessia. Anche se la maggior parte dei dantisti non ha mai voluto nemmeno discutere tali congetture, la recente biografia di Marco Santagata rilancia l’immagine di un Sommo Poeta che parlava di tali avvenimenti come di esperienze personalmente vissute.
I riferimenti testuali
Cesare Lombroso, alla fine dell’Ottocento, aveva ipotizzato che Dante fosse affetto da epilessia. Ma tale asserzione non era ben documentata, collegandosi funzionalmente alla sua teoria generale secondo la quale era dimostrabile che i grandi geni della storia soffrissero di una tabe psichica. Marco Santagata riprende l’ipotesi di un Dante affetto da una grave patologia nella sua infanzia o fanciullezza, che oggi potrebbe identificarsi con l’epilessia. I dati testuali derivano da due componimenti delle Rime. Nella prima (E’ m’incresce di me sì duramente, Rime 19, 57-70), così il Sommo Poeta scrive: «Lo giorno che costei nel mondo venne,/secondo che si truova/nel libro della mente che vien meno/la mia persona pargola sostenne/una passion nova/tal che io rimasi di paura pieno;/ch’a tutte mie virtù fu posto un freno/subitamente sì ch’io caddi in terra/per una luce che nel cor percosse;/e se ‘l libro non erra,/lo spirito maggior tremò sì forte/che parve ben che morte/per lui in questo mondo giunto fosse;/ma or ne ‘ncresce a quei che questo mosse». Dante si riferisce ad un evento traumatico, che coincise con la nascita di Beatrice (Bice Portinari, la sua celebre Musa ispiratrice, nata presumibilmente nel 1266 e morta, ancor giovine, nel giugno del 1290), tale da procurargli un colpo apoplettico o un attacco di epilessia. Il secondo riferimento testuale descrive un Dante «percosso» dalla visione della donna amata, ma in modo del tutto fisico: «Com’io risurgo, e miro la ferita/che mi disfece quand’io fui percosso,/confortar non mi posso/sì ch’io non triemi tutto di paura./ E mostra poi la faccia scolorita/qual fu quel trono che mi giunse a dosso;/che se con dolce riso è stato mosso,/lunga fiata poi rimane oscura,/perché lo spirto non si rassicura» (Rime 50, 52-60).
I sostenitori dell’epilessia dantesca trovano in un altro dato testuale, questa volta collocato nell’Inferno, elementi ancora più sostanziosi in grado di suffragare la loro ipotesi. Siamo nel Cerchio VIII, quello dei fraudolenti, VII bolgia, dove sono puniti i ladri, costretti a subire penose trasformazioni. Uno di loro, Vanni Fucci, è dapprima morso da un serpente e ridotto in polvere; poi, velocemente il suo corpo riacquista spessore ma più lento è il riaffiorare della coscienza. È a questo punto che Dante descrive questo processo con una similitudine: «E qual è quel che cade, e non sa como,/per forza di demon ch’a terra il tira,/o d’altra oppilazion che lega l’omo/quando si leva, che ‘ntorno si mira/tutto smarrito de la grande angoscia/ch’elli ha sofferta, e guardando sospira:/tal era ‘l peccator levato poscia» (Inf., XXIV, 112-118). Ciò su cui si accentra l’attenzione è quel termine «oppilazione», che significa «ostruzione», «occlusione»; un termine tecnico, per l’epoca, utilizzato dai medici per indicare la causa remota dell’epilessia: un’ostruzione dei ventricoli del cervello che non consentono agli umori corporei di circolare, provocando in questo modo lo svenimento e il tremore.
L’epilessia nel Medioevo
Nell’epoca di Dante, l’epilessia non era una malattia come le altre; poteva essere la conseguenza di una possessione diabolica. In genere le culture magiche e arcaiche facevano coincidere lo stato di “trance” di una persona, la perdita di conoscenza e di umori (come la bava), con la possessione di spiriti maligni. Molto spesso tali malati erano considerati irrimediabilmente corrotti dal demonio e sovente condannati al rogo, se donne, come streghe e possedute. In non pochi casi, i medici decidevano di trapanare il cranio dell’epilettico nel tentativo di liberare i liquidi che ritenevano responsabili degli attacchi. I maschi erano castrati per impedire che potessero ancora procreare, le donne affette da epilessia erano rinchiuse in cattività o addirittura seppellite vive, se erano incinte.
Marco Santagata, autore della più recente biografia di Dante
L’epilessia era considerata una malattia fortemente contagiosa. Nel XIII secolo, Bertoldo di Regensburg (il più popolare predicatore tedesco di quell’epoca) raccomandava di allontanarsi velocemente da un epilettico in crisi perché il suo «terribile respiro» avrebbe potuto diffondere il male. Gli antichi trattati di medicina distinguevano l’apoplessia dall’epilessia vera e propria. Quest’ultima era sovente associata allo stato di puerizia, corrispondendo in tal modo a quanto scrive Dante nel componimento E’ m’incresce di me sì duramente. Ippocrate sosteneva che l’epilessia potesse combinarsi agli stati melanconici. Secondo Galeno l’affezione «si ha per la materia che è intorno al cervello e che non riesce a trasferirsi altrove». Secondo un altro sostenitore dell’epilessia dantesca, Claudio Giunta, ci sono talmente tanti passi in cui egli riferisce di sue infermità che tale ipotesi non può essere scartata a priori. Ad esempio: «[…] per pochi dì avvenne che in alcuna parte della mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che mi convenia stare con coloro li quali non si possono muovere» (Vita Nova, 14.1). Secondo Giunta non si può sfuggire a due conclusioni: o l’idea dell’apoplessia o epilessia è radicata come una metafora in Dante (ma non in Guido Cavalcanti, né in altri stilnovisti o poeti trobatorici, il che appare perlomeno incongruo), oppure «Dante seppe trasformare in materia di poesia una propria reale infermità ravvisandovi il nobile effetto dell’amore e non il riflesso di una cattiva disposizione fisica» (in Opere, p. 237).
La narcolessia e la cataplessia
In tempi recenti, a sostegno delle tesi sui disturbi fisici di Dante, si sono aggiunti alcuni studiosi di malattie neurologiche. Giuseppe Plazzi, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie dell’Università di Bologna, ha prospettato l’idea che il poeta soffrisse di narcolessia o di cataplessia. La prima si caratterizza per una disfunzione della fase REM, il livello più profondo del sonno, caratterizzato dalla presenza del sogno e si manifesta con improvvisi stati di assopimento in orari diurni o di paralisi del sonno, durante il quale si ha la sensazione di essere immobilizzati.
Il neurologo Giuseppe Plazzi, sostenitore di una narcolessia in Dante
Recenti scoperte hanno individuato la causa di tale disfunzione nella scomparsa di un piccolo nucleo di cellule cerebrali che producono un neuro mediatore chiamato orexina, che influenza anche numerose funzioni metaboliche. La cataplessia è il cedimento muscolare cui l’individuo è soggetto in presenza di forti emozioni. È pur vero che il sublime testo dantesco va sempre letto allegoricamente, ma, anche in questo caso, le descrizioni delle sue cadute e dei suoi improvvisi sonni sono talmente numerose e tecnicamente precise da far dubitare che possano essere solamente espedienti – per quanto straordinari – di ordine poetico. Non manca chi (Barbara Reynolds) ipotizza che addirittura il Sommo Poeta facesse uso di sostanze psicotrope, ciò che indubbiamente potrà renderlo più simpatico a qualche liceale, utilizzatore di cannabis. «Dante racconta – scrive Plazzi – di episodi di sonno impellente a seguito di emozioni, anche ad orari inappropriati durante la giornata, della comparsa di attività onirica subito dopo l’addormentamento e, soprattutto, di nuovo di episodi di debolezza muscolare scatenati da emozioni intense». Plazzi ha diffuso i risultati delle sue ricerche in alcuni articoli apparsi sull’autorevole rivista Sleep Medicine, fornendo, quindi, una maggiore plausibilità – se non un’evidenza scientifica vera e propria – alle ipotesi di un Dante vittima di disfunzioni di origine neurologica.
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE
M. SANTAGATA, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, Milano, 2013 (2° ed.)
M. SANTAGATA, Folgorazioni e svenimenti. La malattia di Dante tra patologia e metafora, in Scientia, Fides, Theologia. Studi di filosofia medievale in onore di Gianfranco Fioravanti, a cura di Stefano Perfetti, ETS, Pisa, 2011, pp. 387-399
C. LOMBROSO, Le nevrosi in Dante e Michelangelo, in «Gazzetta Letteraria», 25 novembre 1983
DANTE ALIGHIERI, Rime, in Opere, edizione diretta da Marco Santagata, vol. I, Mondadori, «I Meridiani», Milano, 2011 (con note esplicative di Claudio Giunta)
B. REYNOLDS, Dante. La vita e l’opera, Longanesi, Milano, 2007
G. PLAZZI, Response to “Dante’s sincopes”, in Sleep Medicine, vol. 15, 2, febbraio 2014, pp. 276-77
G. PLAZZI, Dante, perché la Divina Commedia è scritta da un narcolettico, in «La Repubblica», 29 agosto 2013 (http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/08/29/dante-ilsonno-perche-la-divina-commedia-scritta.html)
S. IANNACONE, La luna, il sangue, l’incenso. Intervista sull’epilessia tra scienza e mito, Guida, Napoli, 2000