Mauric Goldber Harald Kreutzberg
Rubrica di Danza Butoh: Sara Pulici per Milano Arte Expo
La nascita del butō nel Giappone degli anni 50 è anticipata da una serie di avvenimenti, movimenti e ricerche che direttamente e indirettamente lo rendono possibile e pensabile per i protagonisti di quegli anni.
L’apertura forzata delle frontiere giapponesi nella seconda metà del 1800 avvia una serie di trasformazioni nella società giapponese a tutti i livelli ma è all’inizio del 1900 che il crocevia di scambi tra Europa e Giappone diviene più serrato e il panorama culturale ne viene profondamente influenzato. In Giappone si assiste ad un fiorire di movimenti e filoni di ricerca che da una parte si nutrono delle nuove suggestioni che arrivano dalle avanguardie e dalla letteratura europea e dall’altro si trovano a dover fare i conti con il ricco bagaglio tradizionale autoctono: da queste complesse dialettiche culturali il butō prende il via.
Con l’apertura delle frontiere il panorama della danza in Giappone viene profondamente mutato, nel 1912 a Tokyo si apre la prima scuola di balletto classico, l’insegnamento, su invito del Teatro Imperiale di Tokyo, viene affidato all’italiano Giovanni Vittorio Rossi. Tra i suoi allievi vi è anche un danzatore di nome Baku Ishii che dopo essersi diplomato nel 1916 lascia il corpo di ballo del Teatro Imperiale e si trasferisce in Europa e negli Stati Uniti dove studia con Isadora Duncan, Dalcroze e poi con Mary Wigman che influenza in maniera determinante il suo percorso artistico.
Un altro personaggio che riveste un ruolo fondamentale nel rinnovamento della danza in Giappone è Takaya Eguchi, figlio di due danzatori anch’essi allievi di Giovanni Vittorio Rossi, anche lui studia in Europa e frequenta la scuola di Mary Wigman.
Sia Baku Ishii che Takaya Eguchi sono in periodi diversi insegnanti di Kazuo ed è proprio in uno degli spettacoli di Eguchi che Hijikata vede danzare Ōno per la prima volta. Un altro allievo di Mary Wigman, questa volta europeo, che segna il percorso del giovane Ōno è Harald Kreutzberg che vede danzare nel 1934 nella sua tournée in Giappone.
Riguardo alla sua danza Kreutzberg dice:
“Non sono un leader né un creatore di scuole di danza. Io danzo per esprimere me stesso. Danzo dal cuore, dal sangue e dalla fantasia… Non credo che la danza debba raccontare una storia o avere un significato.”
Mauric Goldber Harald Kreutzberg, Photo Broadway Cas.Sc.Edu.
Successivamente, intorno agli anni ’50, il Giappone vive un periodo di grande fermento culturale scatenato in particolar modo dalla negoziazione dei rapporti con le superpotenze occidentali dopo la sconfitta della Seconda Guerra Mondiale. L’approvazione del Trattato di Mutua Difesa tra Stati Uniti e Giappone nel 1959 viene letto da molti giapponesi ed in particolare dai movimenti giovanili come una palese violazione della posizione di non belligeranza propugnata nella costituzione giapponese visto che di fatto il trattato permette agli americani di mantenere le sue truppe nel paese.
In queste condizioni, la vecchia avanguardia artistica,viene ormai percepita come inadeguata, incapacedi sfidare l’egemonia occidentale perché troppo occidentalizzata essa stessa, senza contare che nonostante l’antagonismo con l’occidente, le forme del teatro tradizionale riformate nell’era Meiji sono percepite dall’avanguardia di quegli anni altrettanto oppressive e vuote delle forme di teatro e danza occidentali.
Quindi nonostante le critiche, i nuovi artisti giapponesi traggono grande ispirazione dai movimenti dell’avanguardia europea quali Dada, Surrealisti ed Esistenzialisti e il risultato è che tutti gli artisti di quegli anni tendono a mischiare generi, oggetti, vestiti sia della tradizione giapponese sia occidentale creando strane combinazioni e contrasti.
Per esempio il pittore Natsuyuki Nakanishi e il grafico Yoko Tadanori, che disegnano locandine e scenografie per il gruppo di Ankoku Butō di Hijikata, utilizzano uno stile deliberatamente di cattivo gusto, enfatizzando il lato irrazionale, infantile, antiestetico degli oggetti; nei loro lavori li vediamo utilizzare spesso oggetti dell’era Meiji tra cui poster, fotografie, vecchi menù, in una tendenza all’uso provocatorio del cattivo gusto, del grottesco e del brutto. Tutto questo, che si ritrova nella tradizione del folklore giapponese, viene chiamata dai critici shuaku no bi (estetica del brutto) e testimonia come gli artisti dell’avanguardia degli anni ’60 proseguano una tradizione giapponese molto antica, anche se la rielaborano in nuove forme.
Inoltre proprio in quel periodo divengono disponibili in giapponese i testi di autori quali il Conte di Lautrémont, il Marchese De Sade, Jean-Paul Sartre, Jean Genet e successivamente anche Antonin Artaud.
Soprattutto il surrealismo nel dopoguerra ricopre un ruolo fondamentale nello sviluppo delle arti sperimentali: dalla musica alla danza, dal teatro alle arti figurative. Uno dei suoi maggiori esponenti è Tatsuhiko Shibusawa1, conosciuto per le sue critiche, i suoi romanzi e le sue traduzioni di testi della letteratura europea.
Shibusawa Tatsuhiko
Per Shibusawa, (che ha giocato un po’ il ruolo di protettore di Hijikata), l’arte e di conseguenza l’artista, hanno il compito di sovvertire le convenzioni sociali, dando alla società il piacere di storcere il naso e di farsi sconvolgere, in una prospettiva antifilosofica e anticoncettuale molto vicina a quella del butō.
Un’altra importante figura dell’avanguardia di quegli anni è lo scrittore e regista Shūji Terayama, fondatore del gruppo Tenjō Sajiki (probabilmente il maggiore gruppo di teatro d’avanguardia giapponese degli anni ’60), che, però, collabora anche con Ōno e Hijikata per i quali allestisce varie scenografie. Così come Hijikata, anche Terayama è contro le tre forme della cultura alta: Nō-Kabuki-Cerimonia del Tè, interessandosi piuttosto alle forme teatrali della cultura popolare quali l’ Asakusa (una specie di spettacolo musicale che mischia elementi europei con quelli della tradizione) il Misemono (uno spettacolo teatrale che include numeri comparabili a quelli circensi) ed infine il teatro Yose (che ha la forma del vaudeville con monologhi comici), tutte arti popolari che nel periodo Edo (1603-1867) danno ampio spazio all’estetica del grottesco e alla trasgressione.
Shuji Terayama, Emperor tomato ketchup, 1971
Nel 1959 viene fondato il Seinen Geijutsu Gekijo o più semplicemente Seigei (Youth Art Theatre) che esprime un forte dissenso politico rispetto al vecchio movimento e alle vecchie generazioni e che trae la sua ispirazione dal teatro agit-prop e in particolare da Brecht. Dello stesso periodo è la “Tenda Rossa” di Jūrō Kara, un artista interessato più che altro al teatro esistenzialista che con le sue performance appunto sotto una tenda rossa fuori dalla stazione di Shinjuku (una tra le più importanti in Giappone) diviene il simbolo del rifiuto dell’edificio teatrale e della resistenza alla modernizzazione forzata e all’urbanizzazione folle di quel periodo.
Come già detto i danzatori butō hanno spesso dimostrato largo disinteresse verso le forme odierne del Nō e del Kabuki, nonostante ciò secondo alcuni ricercatori si possono trovare comunque delle corrispondenze più o meno marcate.
La ricercatrice Susan Blakeley Klein sostiene che alcuni parallelismi possono essere tracciati osservando la struttura delle performance butō e la struttura degli spettacoli del teatro Nō. I particolare mentre la struttura drammatica occidentale procede lentamente verso un unico climax drammatico che costituisce il finale dello spettacolo, il teatro giapponese si sviluppa intorno ad una serie di climax, ciascuno maggiore del precedente, fino a quello finale, maggiore per intensità agli altri, che fa tornare la situazione scenica al livello di partenza. Questa struttura circolare viene detta in giapponese jo-ha-kyu e anche se non sempre questa struttura è presente, la struttura jo-ha-kyu si può comunque vedere nella danza butō nel costante movimento tra i due poli di integrazione e disintegrazione del reale : ad esempio una scena piena di violenza può lasciare spazio subito dopo a una visione idilliaca di meravigliosa bellezza per poi trasformarsi di lì a poco in un incubo peggiore del precedente.
Questa vicinanza di struttura, tra il teatro classico e la danza butō, secondo alcuni critici si accompagnerebbe anche ad alcune somiglianze tecniche che con gli anni si sono formalizzate: è il caso del ganimata (bowlegged crouch) che ha in comune con il teatro tradizionale un centro di gravità molto basso, saldamente legato a terra.
Secondo Hijikata però il ganimata trova la sua origine nella postura naturale dei giapponesi, in particolare in quella dei contadini, costantemente piegati sui campi di riso e spesso costretti a trasportare carichi molto pesanti sulla schiena.
Un ulteriore elemento di vicinanza tra le arti tradizionali e il butō, è il ruolo fondamentale riservato ai piedi.
Le arti performative giapponesi, dal Nō al Kabuki, vengono spesso definite come “danze del camminare” e il butō degli esordi sviluppa una camminata che visivamente si avvicina molto a quella tradizionale del suriashi (letteralmente “piedi che lambiscono”). In questa camminata tipica del teatro Nō, le ginocchia si piegano, le anche si bloccano, i piedi strisciano sul pavimento creando così tensioni differenti nella parte bassa e alta del corpo e un particolare bilanciamento del peso sulle anche che viene chiamato hipparihai (tensione opposta).
Lo stesso Yoshito Ōno però ridimensiona il parallelismo e sostiene che se anche il modo di camminare è fondamentale sia nel Nō che nel butō, le tecniche e le modalità in cui ciò avviene divergono notevolmente. Infatti nel Nō le ginocchia sono piegate leggermente, la spina dorsale è in linea con la nuca e il busto è lievemente piegato in avanti, nel butō invece la condizione di prevalente squilibrio del corpo proietta molto in avanti il danzatore che compie il passo creando una tensione muscolare a carico delle gambe di gran lunga maggiore.
Va ricordato inoltre che sia Hijikata che Kazuo Ōno iniziano a danzare senza avere alcuna cognizione del Nō e del Kabuki e Hijikata nella conferenza tenuta a Tokyo nel 1985 in occasione del primo festival di butō si esprime così a riguardo:
“Ancora oggi ho davanti agli occhi questa immagine: bambino, sono scivolato e sono caduto in tutta la mia lunghezza nel fango. Ero disteso nella merda e mi sentivo così penoso e miserevole che mancano le parole per descriverlo. Persino il ceppo d’albero mozzo voleva urlare di pena, tanto ero una preda impotente, là disteso…Quando si è nella merda in questo modo, si fanno delle esperienze sorprendenti. La testa e le gambe si invertono bruscamente e sulla pianta dei piedi si apre una bocca che succhia il fango…In ogni caso, io porto ancora in me la sensazione della testa e dei piedi invertiti, e con essa mi tornano tutti i penosi ricordi d’infanzia. Qui devo fissare chiaramente che il mio butō è cominciato nel fango primaverile e non in relazione all’arte tradizionale del tempio e dello shintoismo. Vi posso assicurare che la mia danza è nata dal fango.” Hijikata
Infine un carattere di continuità tra tradizione artistica nipponica e il butō si ritrova nella frequente mancanza di corrispondenza tra il sesso del danzatore e quello della figura in scena, la più nota è la figura dell’onnagata nel Kabuki cioè dell’attore maschio che recita ruoli femminili.
Vale la pena infine ricordare Kunio Yanagita le cui ricerche etnografiche hanno un’influenza pervasiva sugli artisti degli anni ’60. I suoi lavori sulle tradizioni orali dei popoli di montagna e delle piccole comunità rurali accresce la nostalgia della popolazione urbana verso le propri origini rurali. Inoltre il rifiuto di Yanagita di citare nei suoi lavori fonti straniere e l’insistenza sulla unicità del carattere delle istituzioni giapponesi rendono i suoi lavori molto apprezzati dagli artisti e agli intellettuali disaffezionati in quegli anni ai modelli occidentali. Le sue ricerche hanno come protagonisti gli elementi posti ai margini della società giapponese: le donne, i bambini, i malati di mente, i vecchi che per Yanagita sono i veri depositari della autentica tradizione giapponese proprio per la posizione di esclusione che occupano nella società. Le ricerche di Hijikata alla fine della sua vita andranno nella stessa direzione.
Per quanto riguarda l’Europa del Novecento si presenta scossa da rivoluzioni sociali ed economiche, ma anche filosofiche. In questo panorama la danza, anche grazie alla profonda influenza di Nietzsche, comincia a sperimentare nuove direzioni per trovare una nuova legittimazione in proprie leggi e propri processi simbolici.
Si assiste inoltre alla riscoperta del corpo, che porta a una vasta e variegata sperimentazione delle sue modalità espressive. In particolare a questa nascente attenzione verso il corpo contribuisce il Movimento Giovanile Tedesco, il cui interesse si rivolge in particolare al rapporto con la natura e alla riscoperta delle tradizioni folkloriche. In questo periodo l’esercizio fisico diviene un dovere verso se stessi e la bellezza e l’armonia del corpo vengono sempre più letti come indice di armonia e qualità intellettuali, in questo panorama di grande fermento trovano spazio le sperimentazioni di Emile-Jaques Dalcroze che crea il suo sistema ritmico mirato a rieducare il corpo all’ascolto e ad aumentare la consapevolezza dell’individuo sulle proprie possibilità e sui propri limiti.
Rudolf Von Laban
Un’ulteriore spinta alla riforma delle arti nel primo Novecento in Europa viene dal lavoro di Rudolf von Laban che dà vita insieme ai suoi allievi ad una danza libera che ricerca l’espressione naturale del corpo. Attraverso la vita comunitaria, semplice e all’aria aperta Laban elabora la sua filosofia della danza ricercando le regole interne al movimento che viene considerato un effetto visibile dell’esperienza interiore. Laban rivendica quindi per la danza una totale autonomia rispetto alle altre arti e la necessità per essa di trovare in se stessa le proprie motivazioni profonde.
Conseguenza di questa tesi fu la valorizzazione dell’individuo, sia riguardo la sua fisicità che la sua personalità fino a sostenere che “ognuno è un danzatore” e aprendo così le porte del settario mondo della danza a tutti.
Il lavoro di Laban così come quello del butō e di altri movimenti artistici di quegli anni, viene svolto all’interno di vere e proprie comunità che si costituiscono attorno ai loro fondatori. Per il butō degli inizi lo studio avviene in circoli ristretti di persone che, avvicinatisi a Hijikata e Ōno cominciano a frequentare i loro atelier di danza, creando piccole comunità molto attive nella ricerca. Anche successivamente, con la diffusione di gruppi di butō negli anni ’70, si vede la tendenza a creare dei gruppi comunitari che difficilmente si inseriscono nella società circostante e che tendono invece a porsi in relazione dialettica con questa. E’ il caso del gruppo Dairakuda-kan, ma anche del gruppo Byakko-sha e della Body Weather Farm di Min Tanaka. In tutti questi casi la ricerca nella danza viene affiancata ad una ricerca più quotidiana di uno stile di vita alternativo a quello codificato. Nel caso specifico di Min Tanaka ad esempio, la danza viene alternata al lavoro nei campi e alla gestione della fattoria che diventa quasi una forma di training, in quanto non solo permette di allenare il corpo ma fornisce anche la possibilità di sperimentare la natura e le sue leggi.
Il lavoro di Laban e il Neue Tanz tedesco in generale suscitano grande interesse in Giappone, ma non si diffondono, come la danza classica attraverso le scuole, piuttosto il suo l’insegnamento dipende dai singoli. Takaya Eguchi in particolare, studia con Mary Wigman, una delle migliori allieve di Laban. La Wigman elabora un’estetica della danza basata sulla sintesi tra componenti spirituali e fisiche e il suo corpo diviene per lei uno strumento naturale, teatro di forze oscure, inconsce e molto potenti.
Martha Graham, Barbara Morgan
Senza dubbio un forte legame tra il butō e la danza espressionista europea si deve all’influenza del pensiero di Nietzsche su entrambe e al periodo di transizione che sia la Germania sia il Giappone si trovano a vivere seppur in momenti e modi diversi: la Germania degli anni ’30 si avvia a tutta velocità a un altro conflitto mondiale dopo un difficile dopoguerra, il Giappone post-atomico di trent’anni dopo si trova altrettanto confuso e senza direzione; ma mentre il corpo espressionista mira a portare all’esterno i contenuti interiori, il rapporto tra corpo ed espressione nel butō viene sviluppato in maniera totalmente differente e va verso una rinuncia all’espressione, il corpo diviene sulla scena un “corpo morto”: una materia malleabile che esplora la memoria che raccoglie dentro di sè.
Per quanto riguarda la Modern Dance pur non essendoci un collegamento diretto con il butō è interessante notare come si ritrovino delle direzioni comuni, quasi il ventesimo secolo abbia sviluppato delle forme di ricerca convergenti, almeno su alcuni punti.
Martha Graham, madre della Modern Dance sostiene:
“Per tutti noi, ma in particolare per un danzatore, data l’intensità con cui percepisce la vita e il proprio corpo, vi è una memoria del sangue che ci parla. Il nostro sangue ci viene dai genitori, e attraverso il loro sangue ci viene quello dei loro genitori e dei genitori dei genitori, e così via, indietro nel tempo. In noi scorre un sangue millenario, con i suoi ricordi…”
Alla base di queste affermazioni di Martha Graham c’è una visione quasi junghiana del corpo come depositario di una memoria collettiva che trascende l’individualità di ognuno, attraverso la danza il danzatore può rendere accessibile il suo intimo al pubblico che è messo in condizione di coglierne i tratti di universalità e dunque di partecipare ad un processo quasi catartico.
Martha Graham
La sperimentazione di Hijikata soprattutto riguardo la riscoperta delle sue origini, va nella stessa direzione.
Negli anni ’70 i danzatori butō cominciano ad esibirsi in Europa, i primi ad approdarvi sono gli allievi di Hijikata, ma la popolarità del butō risale agli anni ottanta quando in occasione del “Festival di Danza di Nancy”, si esibiscono Kazuo Ōno e i Sankai Juku. Anche negli Stati Uniti il butō fa la sua apparizione negli stessi anni grazie al danzatore Min Tanaka, nel 1986 le prime pubblicazioni a riguardo divengono disponibili in inglese e compaiono diversi articoli su varie riviste per spiegare il fenomeno.
Dagli anni ’80 e ’90 in poi i danzatori butō sono sempre più contaminati dalle arti visive, dalla danza e dal teatro e si cominciano a formare danzatori butō provenienti da tutti i continenti.
Spesso il butō per la difficoltà a trovarne una definizione soddisfacente è stato assimilato al teatro-danza ma questo non fa che mettere in luce l’inadeguatezza delle categorie artistiche a tutt’oggi in nostro possesso ,sminuendone allo stesso tempo le peculiarità.
In realtà il teatro-danza come movimento si è sviluppato in modo completamente indipendente dal butō anche se con dei riferimenti in comune. Infatti questo movimento che si è diffuso grazie alla coreografa e danzatrice Pina Bausch affonda le proprie radici nell’espressionismo tedesco e ne sviluppa i temi, poi, con gli anni e la popolarità assunta dal teatro-danza, questa “etichetta” si è andata impropriamente ampliando per accogliere anche fenomeni di difficile collocazione e il butō è tra questi.
Pina Bausch
In conclusione, con la nascita del butō ci troviamo di fronte ad un fenomeno di meticciato culturale (divenuto ormai la regola nel mondo contemporaneo) che ci preclude in qualunque punto del suo sviluppo di ricercarne una qualsivoglia “purezza”. Alla radice vi troviamo una necessità profonda di conciliare le proprie origini con il nuovo che avanza, in un doppio movimento di contrazione ed espansione che rendono il butō profondamente ricco, complesso ed allo stesso tempo sfuggente.
NOTE
[1] Importante critico letterario e traduttore che insieme a Nario Goda assistette la nascita della danza butō.
CITAZIONI
Viala, Jean e Masson-Sekine, Nourit, Butoh. Shades of Darkness, Shufunotomo, Tokio, 1988.
Pontremoli, Alessandro, La danza – storia, teoria, estetica nel Novecento, Bari, Laterza, 2004.
Blakeley Klein, Susan, Ankoku Butō: The Premodern and Postmodern Influences on the Dance of Utter Darkness, Cornell University East Asia Program, 1989.
Barba, Eugenio, La canoa di carta, Bologna, Il Mulino, 1993.
Salerno, Giorgio, Suoni del corpo segni del cuore, Milano, Costa&Nolan, 1998.
Ortolani, Benito, Il teatro Giapponese: dal rituale sciamanico alla scena contemporanea, Roma, Bulzoni, 1998.
D’Orazi, Maria Pia, Butō. La nuova danza giapponese, Roma, Editori Associati, 1997.
Sara Pulici
Schermaglie culturali tra Europa e Giappone, l’avvento del butō
MAE Milano Arte Expo – [email protected] – ringrazia Sara Pulici per la rubrica dedicata alla Danza Butoh e il testo Schermaglie culturali tra Europa e Giappone, l’avvento del butō.