Datata 1900, Danza di morte del drammaturgo svedese è considerata una delle pietre miliari del teatro del Ventesimo secolo. Dell’originale Ronconi conserva praticamente tutto, in primis l’ambientazione: la dimora “rinchiusa” in un faro arroccato su un’isola abbandonata in mezzo al freddo e ventoso mare del nord. Al suo interno pone un mobilio nobile ma invecchiato, come bruciato, imbrunitosi nel tempo. In questo cupo ring, tra un triclinio e un letto rialzato, un telegrafo e un pianoforte ibseniano, si muovono marito e moglie, Edgar e Alice, lui capitano dell’esercito mai diventato Maggiore, lei attrice la cui carriera non ha mai spiccato il volo. Nella loro insoddisfazione matrimoniale che s’avvia al traguardo delle nozze d’argento, mette il dito il cugino Kurt, untuosa e ingenua entità che funge da agitatore delle acque stagnanti e torbide della loro unione. Nei panni dei due coniugi Giorgio Ferrara e Adriana Asti, coppia anche giù dal palco, mentre in quelli del terzo incomodo Giovanni Crippa. Tutti molto bravi. Ronconi li dota d’invisibili denti aguzzi da vampiro, spingendoli in una girandola di morsi sul collo che però non mordono sullo spettatore. Denti di latte, di gomma, dunque.
Tra scene, scenette e scenate da matrimonio, l’inferno coniugale si consuma, ma senza “mordente”. Ronconi elabora la sua idea partendo da alcune battute del testo in cui i personaggi, nell’apatia e nell’insoddisfazione, affermano d’essersi succhiati l’un l’altro il sangue, la vita, il tempo che avevano e il tempo che resta. Ma lo spunto stanca alla sua prima evocazione, pur essendo il vero tratto originale di una messinscena che abbevera la sua portata spettrale muovendo on stage il mobilio (come già accadeva ne La modestia di Spregelburd di un paio di anni fa) come fosse in balia del vento e del mare in burrasca, oltre che ricorrendo a costumi, trucco e parrucco di chiara derivazione cinematografica, del Tim Burton di Nightmare Before Christmas e Il mistero di Sleepy Hollow, La sposa cadavere e Sweeney Todd.
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