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Dare un senso alle provocazioni della Russia nello spazio postsovietico

Creato il 22 ottobre 2013 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Forse lo avevamo dimenticato, ma la caratteristica fondamentale della Russia è quella di sorgere sul territorio russo. Non è un gioco di parole. A forza di citare Mosca nel contesto del braccio di ferro diplomatico che contorna il conflitto siriano, abbiamo trascurato che gli interessi geopolitici dei russi si concentrano primariamente a ridosso del Mar Nero, nel Caucaso e in Asia centrale. In quelle aree che una volta facevano parte dell’Urss e che oggi, non a caso, chiamiamo spazio postsovietico.

Spazio ex sovietico sul quale la Russia non ha mai mancato di esercitare un’influenza, per non dire una prelazione. Risale ad un anno fa, all’indomani dell’annuncio da parte di Putin della sua candidatura alle presidenziali di marzo 2012, la prima menzione ufficiale del progetto di Unione eurasiatica. L’idea, ispirata al modello di’integrazione dell’Unione Europea e rivolta ai Paesi che furono parte dell’Urss (con le scontate eccezioni dei Paesi baltici, della Georgia e anche dell’Azerbaijan), affonda le sue radici in una serie di precedenti tentativi di integrazione della regione, tutti tesi alla riorganizzazione geostrategica dello spazio postsovietico all’indomani della dissoluzione.
Il primo passo in questa direzione è stato compiuto da Russia, Bielorussia e Kazakhstan, che nel 2010 hanno dato vita ad un’unione doganale che prevede l’adozione di una tariffa doganale unica e l’abolizione dei controlli doganali alle frontiere comuni. E’ a partire da questa prima forma di integrazione economica che, nel novembre 2011, i presidenti dei tre Paesi costitutivi hanno sottoscritto una dichiarazione in cui si prefiggono di realizzare l’Unione euroasiatica entro il 2015. A tal fine, nel gennaio 2012 è entrato in vigore – sempre fra i tre Stati fondatori – uno Spazio economico comune modellato sulla base di quello europeo, in cui merci, servizi, persone e capitali possano circolare liberamente. Dal 1991, quando la bandiera sovietica fu ammainata per l’ultima volta, si tratta del progetto più ambizioso volto a colmare il vuoto geopolitico lasciato dalla dissoluzione – sotto l’egida di Mosca, ovviamente.

Fondamentale, a questo punto, è capire chi di questo spazio farà parte, e a quali condizioni. Nell’Unione Eurasiatica è recentemente confluita l’Armenia. Prospettata già da diverso tempo, l’adesione di Yerevan è ora ufficiale. L’accordo con Russia, Bielorussia e Kazakhstan vanifica la prevista conclusione di un accordo di associazione con l’UE. Gas meno caro ed appoggio militare nel Nagorno-Karabakh sono due argomentazioni in favore di Mosca a cui Bruxelles non ha potuto replicare con offerte più allettanti.

Ma la vera partita tra Europa e Russia si gioca in Ucraina, tuttora sospesa tra l’Accordo di associazione con la UE e l’adesione all’Unione Eurasiatica. Con il Paese ormai ad un passo dalla firma dell’Accordo – che consentirebbe l’integrazione economica di Kiev nell’Unione – la Russia ha avviato nei confronti degli ucraini una serie di ritorsioni commerciale per costringere il governo a cambiare idea, In agosto, la Russia ha sospeso le importazioni di macchinari dall’Ucraina, mentre il Kazakhstan ha respinto le importazioni a base di uova da Kiev sulla base di supposte mancanze fitosanitarie. Già in luglio, Mosca aveva deciso il blocco delle importazioni dei prodotti della dolciaria Roshen, società posseduta da Petro Poroshenko, ministro del governo ucraino che, più di tutti, sostiene l’avvicinamento del Paese all’Unione Europea. Non dimentichiamo le cosiddette guerre del gas, che l’Europa pare aver scoperto dopo la Rivoluzione arancione ma che in realtà fanno litigare Mosca e Kiev da sempre.
L’Ucraina è un Paese per dimensioni e popolazione pari più o meno alla Francia, che versa in una crisi economica e politica tanto profonda da rendere impossibile al momento prevederne l’esito. E’ qui che nel 2005 ebbe avvio la cosiddetta Rivoluzione arancione, esplosa per impedire la falsificazione delle elezioni a favore del candidato filorusso. Fu allora che il mondo prese coscienza che a Kiev coesistono due anime: quella di un’Ucraina storicamente e/o potenzialmente europea e un’Ucraina russofona, vicina a Mosca. Una realtà moderna e pluralista, l’una; più arretrata e monoculturale, l’altra. Solo grazie al pronto intervento della UE si impedì che la situazione precipitasse in una guerra civile.
Dopo la disgregazione dell’Urss, l’Ucraina è diventata oggetto di un gioco a somma zero tra la Russia e gli Stati Uniti. A Kiev fu imposto di scegliere tra Europa (e di riflesso gli USA) e Russia. Per un paese così eterogeneo, addirittura polarizzato, come l’Ucraina, in cui qualunque scelta politica equivale ad un cammino in un campo minato, una scelta tra “Oriente” e “Occidente” è impossibile. Dalla parte americana si è subito schierata la Polonia. La prospettiva di un riavvicinamento alla Russia suscitava in molti il timore di essere nuovamente inghiottiti dall’impero rinascente; d’altra parte l’idea di entrare a far parte nella UE, avvertita come bacchetta magica per favorire il benessere economico della popolazione, ha sollevato le preoccupazioni di quanti considerano l’integrazione in Europa come l’anticamera dell’ingresso nella Nato. opzione improponibile ai filorussi.
Sui rapporti tra la Russia e l’Ucraina la vicenda Nato ha avuto pesanti conseguenze. Con l’intensificarsi nel 2007-2008 degli sforzi americani – ed europei – per spingere l’adesione di Georgia e Ucraina alla Nato, diversi politici ucraini di etnia russa, che non rappresentano direttamente il Cremlino ma occupano posizioni di rilievo nelle gerarchie istituzionali ucraine, hanno cominciato ad avanzare decise richieste di “restituzione” alla Russia della Crimea, assegnata all’Ucraina da Kruscev nel 1954, in occasione della celebrazione dei trecento anni dell’unificazione dell’Ucraina alla Russia. Non è che un primo assaggio del focolaio di tensione, al momento controllato, che potrebbe divampare nel caso in cui l’Ucraina dovesse davvero intraprendere la strada verso l’Alleanza Atlantica.
Nel summit della Nato a Bucarest dell’aprile 2008, Putin ha avuto modo di esporre senza mezzi termini la sua visione geopolitica riguardo all’Ucraina, nella quale questa risultava una mera creazione dell’Urss in virtù di “territori regalati” sia dalla Russia (come la Crimea, appunto) che dall’Europa orientale. Era una provocazione calcolata, ma sintomatica di come Putin non intenda permettere a Kiev di allontanarsi dall’orbita moscovita. Lo storico Samuel Huntington, nel suo discusso Lo scontro delle civiltà aveva indicato, come confine tra il mondo democratico e quello autocratico, l’arteria del fiume Dnepr-Dnipro che taglia l’Ucraina in due parti. A conferma della sua tesi, quello che sta succedendo nel Paese negli ultimi anni costituisce un’innegabile riprova dell’antagonismo tra l’attuale Russia e l’Occidente.

Un luogo dove questo dualismo ha portato ad una vera e propria guerra è la Georgia, attaccata e smembrata in tre parti al termine di una guerra-lampo con Mosca nel 2008.
Martedì 27 Agosto, il Presidente russo Vladimir Putin si è recato in visita ufficiale regione separatista dell’Abcasia, Inutile dire che il gesto di Putin ha sollevato la protesta ufficiale del governo di Tblisi. La Georgia ha almeno due motivi per considerare questa visita come un’autentica provocazione. In primo luogo tempistica: esattamente cinque anni e venti giorni prima, i carri armati di Mosca attraversavano il Tunnel di Roki dalla repubblica russa dell’Ossezia del Nord per entrare in Ossezia del Sud, dando così avvio al conflitto. In secondo luogo, non più tardi di due mesi prima, in giugno, la Russia aveva rafforzato i confini dell’Ossezia del Sud attraverso una barriera il filo spinato, spostando peraltro la frontiera di alcune centinaia di metri in territorio georgiano. Inizialmente la Georgia ha sminuito, preferendo non reagire alla provocazione. In realtà, il presidente georgiano Saakashvili era solo in attesa del momento opportuno, e questo è arrivato il 25 settembre, quando egli ha tenuto un acceso discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite con il quale ha duramente attaccato la Russia e la sua politica imperialistica. Per Saakashvili l’Unione euroasiatica è un pericolo per tutti gli Stati ex sovietici perché li obbligherebbe ad abbandonare le loro aspirazioni di democrazia e libertà – rappresentate da un’eventuale adesione in Europa – e tornare sotto la dittatura della grande madre Russia.
Saakashvili è convinto che Abcasia ed Ossezia torneranno sotto la sovranità di Tblisi, sebbene neanche lui, al momento, abbia probabilmente idea di come questo ritorno potrà avvenire. Per ora il presidente si limita di perdere tempo per guadagnare tempo: a parole il suo governo alterna aperture in merito a possibili relazioni di interesse comune con Mosca; di fatto resta in attesa del 2014, quando la Georgia riceverà dalla Nato il sospirato Membership Action Plan, anticamera dell’ingresso nell’Alleanza Atlantica.
Tali episodi testimoniano la reciproca diffidenza tra le parti e di certo non agevolano una distensione che procede già a passo di lumaca. Il ripristino delle relazioni diplomatiche tra Russia e Georgia si accompagna ad alcune condizioni (nello specifico: il ritiro dell’esercito russo da Abcasia e Ossezia per i georgiani; il riconoscimento delle due repubbliche da parte di Tbilisi per i russi) reciprocamente inaccettabili, e pertanto ad oggi i due Paesi rimangono su posizioni inalterate rispetto a cinque anni fa.

La Georgia è un caso da manuale di come il Cremlino sfrutti la disattenzione dell’opinione pubblica internazionale, tutta concentrata su quanto avviene a Damasco, per compiere delle ennesime provocazioni nello spazio ex sovietico, con pesanti conseguenze per tutto lo spazio stesso.
Tuttavia, nel corso degli anni anche l’Occidente ha compiuto una serie di atti che Mosca ha percepito come ostili. L’idea che la Nato possa spingere i suoi confini sino a quelli di Mosca è avvertita dai russi come una minaccia. . Ad esempio, quando nel citato summit Nato di Bucarest furono intensificati gli sforzi per accogliere Georgia e Ucraina, alla Russia fu risposto che, in quanto non membro dell’Alleanza, non aveva voce in capitolo nella questione. Dichiarazioni che a Mosca sono state recepite come un affronto. Inoltre, sempre nel 2008 la guerra russo-georgiana fu preceduta dal riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo – unilateralmente dichiarata nei confronti della Serbia – da parte dell’Unione Europea, nonostante la ferma opposizione di Mosca. E’ probabile che questo secondo episodio abbia contribuito in modo determinante a far precipitare la situazione nel Caucaso: con la guerra Mosca ha voluto avvertire tutti che, se davvero Kiev e Tbilisi aderissero al Patto atlantico, lo farebbero da staterelli dimidiati. All’indomani della guerra russo-georgiana, rappresentante della Federazione Russa presso la Nato, Dmitrij Rogozin, ha affermato: “Adesso semplicemente non si capisce quale Georgia possa essere accolta nella Nato. Risulta che tutti i paesi della Nato dovrebbero forse riconoscere l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia, e allora, staccandole dalla Georgia, accogliere la parte restante del paese”. In pratica, l’ingresso di Tblisi nel Patto Atlantico comporterebbe il necessario riconoscimento delle due repubbliche separatiste da parte dei Europa e America, aspetto al momento fuori discussione.

Quando si parla del desiderio della Russia di recuperare lo status di grande potenza, troppo spesso ci si dimentica di chiarire cosa ciò significhi. Le ingerenze di Mosca in quel di Kiev  e di Tblisi, e la costituzione dell’Unione Eurasiasica, non rappresentano dei tentativi di ricreare l’Urss. Questa idea non gode oggi di grande favore e non corrisponde agli interessi delle élite al potere. Persino la rinascita dell’unità slava di Russia, Ucraina e Bielorussia non ispira granché la popolazione.
L’interesse di Mosca per ciò che avviene nel suo cortile di casa è dettato da una ragione esistenziale. Il rapporto con lo spazio è sempre stato un elemento vitale per l’esistenza stessa della Russia e costituisce il punto di partenza della sua visione geopolitica. Lo spazio postsovietico è l’ex spazio sovietico, e questo, a sua volta, è l’ex spazio dell’impero russo. Il fatto che la Russia sia sorta sul territorio che fu dell’Urss e prima ancora dello stato russo è l’unico contrassegno oggettivo che accomuna popoli e regioni tra loro diversissimi (che cosa ha in comune la Lettonia con il Tagikistan?) ma che hanno vissuto per decenni sotto le stesse insegne, e che tutt’oggi subiscono l’influenza, per non dire il peso, della tradizione sociale e politica del gigante che un tempo li riuniva.
In un certo senso, Mosca si sente impero. Ma ci si stupirà di apprendere che nella storia russa la visione imperiale ha sempre avuto poco a che vedere con la volontà di potenza, Scriveva l’analista Pavel Byrkov nel 2008: “La storia dell’impero russo non si differenzia così marcatamente da quella degli altri imperi europei. Per molti aspetti è stata anche più umana. In ogni caso la Russia non ha avuto la possibilità di scegliere se essere un impero o un normale Stato democratico europeo. La scelta che si è presentata è stata se essere impero o colonia”. Lo stesso presidente Putin non è molto lontano da questo pensiero. Nel 2009 dichiarò: “O la Russia fa parte del gruppo deiPaesi leader del mondo, oppure essa scompare“.

Alla fine degli anni Novanta il rischio di una frammentazione della Russia in tante entità minori era diventato reale. La disgregazione dell’Urss nel 1991 era avvenuta in modo repentino e in maniera inaspettata per la maggior parte della popolazione. Ancora oggi l’ideologia che rappresenta un potenziale pericolo sia per la Russia che per i suoi vicini è l’irredentismo, vale a dire quella forma di nazionalismo che pone l’accento sulla “riunificazione” in un unico Stato delle terre e dei popoli che questo nazionalismo ritiene propri. Con il crollo dell’Urss sono effettivamente rimasti fuori dalla Federazione Russa ampi territori e numerosi gruppi di popolazione russofona che l’opinione pubblica considera come propri, non nel senso che un tempo erano appartenuti all’impero, ma in quanto russi. Questo è un effetto collaterale della genesi stessa dell’Unione Sovietica, nella quale i confini delle repubbliche furono tracciati con proditorio sfregio di quelli etnici, in base al principio “unisci per indebolire”. Popoli eterogenei furono inclusi in territori omogenei, alimentando così l’instabilità politica: nel 2010 il Kirghizistan fu sull’orlo di una guerra civile tra la maggioranza kirghiza e la minoranza usbeca. Ancora oggi sia in Russia che in quasi tutte le repubbliche limitrofe esistono movimenti separatistici, e in alcuni casi (in Georgia, appunto) si hanno Stati illegali autoproclamatisi tali.
Così, se l’Europa è riuscita a realizzare un progetto di diritti civili, di modernizzazione, di pace e benessere per la maggior parte dei propri cittadini, la Russia invece, dalla fine degli anni Novanta si è messa a ricostruire la sua dimensione politica in termini sostanzialmente imperialistici, incompatibili dunque con la modernità. Detto in altri termini, dopo aver inglobato e tentato di omologare realtà eterogenee, popoli ed etnie diversissimi, la Russia si è ritrovata ostaggio della sua strategia colonialista. Diventando impero, è diventata Eurasia, e quindi né Europa né Asia. Mentre la maggior parte dei popoli europei usciti dall’orbita di Mosca, recuperando le rispettive identità culturali distrutte dal comunismo, si stanno integrando, seppur tra mille difficoltà, nello spazio comune della democrazia, la Russia si trova ancora a fare a pugni davanti allo specchio. Oggi Mosca, cercando di recuperare spazi perduti, spera di dar ordine alla sua situazione interna.

Per questa ragione ogni rischio di un indebolimento dell’esercizio del potere da parte dello Stato sullo spazio russo viene visto dai russi come una minaccia potenzialmente fatale. Instabilità politica del proprio spazio e timore nella percezione della propria sicurezza sono due facce della stessa medaglia. Per Mosca l’episodio del confine osseto-georgiano rafforzato con il filo spinato, ad esempio, è di fatto un messaggio del suo malcontento per l’estensione del MAP a Tblisi. Ancora, passando all’Ucraina, durante la Rivoluzione arancione Sergio Romano scriveva che l’Europa dovrà “garantire a Putin che l’Ucraina non sarà mai più una spina polacca nel fianco dello Stato russo”, cosa che in effetti non è stata.
Si capisce perché il rapporto tra Russia e Occidente è sempre stato contraddittorio e improntato più sulla diffidenza che sulla collaborazione. Le due realtà parlano due lingue diverse: l’Occidente, seppur con incerta coerenza, pone comunque l’accento su valori quali la libertà e la democrazia, mentre la Russia avverte questi stessi valori come minaccia per la propria identità. La cattiva esperienza vissuta negli anni di Eltsin ha parecchio screditato il modello democratico agli occhi dell’opinione pubblica, tanto che oggi democrazia e logoramento dello Stato sono quasi diventati sinonimi.
Oggi, per la Federazione russa, la spazio per una nuova architettura di sicurezza trova le sue fondamenta su una solida rete di partenariati con le repubbliche sue ex sottoposte e nella bonifica dello spazio stesso dalle situazioni conflittuali, in particolare con la Georgia. Per la quale la porta della Nato sarà sempre aperta, assicura l’organizzazione. Ma intanto resta chiusa, e anche negli USA c’è chi comincia a chiedersi se sia ancora il caso di accogliere Tblisi, all’idea della (ulteriore) instabilità che verrebbe a crearsi in una regione, quella caucasica già in ebollizione.

Quando nel 2009 il presidente americano Obama parlò di un “reset” nella relazioni con Mosca, molti osservatori, anche di parte russa, apprezzarono la buona volontà manifestata dalla Casa Bianca, anche se non era ben chiaro cosa questo “reset” volesse dire. Da allora si è fatto ben poco. Affinché una nuova cornice di rapporti tra USA, UE e Russia sia possibile, bisogna mandare in soffitta quella vecchia. Qualunque cambio di strategia richiede innanzitutto un mutamento radicale delle concezioni reciproche dei partecipanti: l’Europa dovrà sì diversificare le proprie fonti di energia, in modo da liberarsi dai ricatti di Mosca, ma dovrà anche togliere a questa l’etichetta di “barbaro eternamente alle porte” che le ha imposto nei secoli passati. Allora si parlerà di un sistema di sicurezza paneuropeo e di relazioni radicalmente nuove tra Russia e UE, tra Russia e Nato. Sarebbe vantaggioso per tutti, visto che la categoria dei pesi massimi geopolitici ha da poco visto visto l’ingresso di un nuovo contendente, la Cina, la cui proiezione esterna in Asia centrale e in Siberia sembra minacciare la sfera di integrità russa molto più di quanto non farebbe la temuta Nato.

* Articolo comparso originariamente su The Fielder


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