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“Dark Shadows” (id., 2012) è il quindicesimo lungometraggio del
regista di Los Angeles.
Visionario come (forse) nessuno Tim Burton riesce ogni a stupirci(si).
Un grondare di effetti e di colori, uno sciorinare di immagini
ammaliatrici e riluttanti come in un gioco a specchio complementari
fra loro e mai di puro sadismo o di horror riprovevole. Un film che
scaccia ogni dubbio di facile gusto e riesce in un battibaleno a
conquistarti per una lettura divertita e divertente. E dopo un breve
prologo arrivano in corsa (di treno) i titoli di testa con un magico
respiro fine anni sessanta con la canzone “Night in White Satin” di
The Moody Blues (del 1967 la prima versione) mentre la didascalia del
film ci porta nel 1972. Una goduria impagabile vedere il sogno
mainstream non offuscarsi per nulla nella prima mezz’ora con una
genialità di ripresa e una corsa triscronovampirica a dir poco
salutare dopo un’attesa di oltre duecentoventi anni per l’alter-ego
del regista sperperare il suo mondo fantasioso dentro il set aggrumato
e umidificato di un’oscurità annebbiata e chiusa. Un’apertura come si
conviene per una pellicola (con un budget consistente) dove il regista
sa districarsi bene (e anche molto) pur con qualche allungo di troppo
nella sceneggiatura. Nonostante la pellicola (su commissione) non
fosse nei piani iniziali di Burton (lunga è stata la messa in opera
della scrittura) si deve dire che essa raggiunge uno stile personale
evidente e sequenze visionarie (come nella sua migliore tradizione).
E’ da rimarcare che la filmografia burtoniana segue un percorso
altalenante nelle produzione e nelle storie: i grandi investimenti
degli studios danno un certo campo di libertà di operare ma nello
stesso tempo il regista alimenta il suo cinema con archetipi maggiori
e con virtualità più di effetto che di apertura sapiente del suo mondo
personale. Si ha la sensazione che qualche intoppo (o qualche
accettazione di troppo) costringa (nel senso lato del termine) il
regista ad assecondare certi mega investimenti oltre l’utilità per
‘dimostrare’ e ‘saggiare’ il suo immaginario e darlo ‘a bere’ allo
spettatore. La pop-arte-filmica di Tim Burton è però, allo stesso
istante, succulenta, spinta e ammassata di molto da aggiungere come
sottratta da un mo(n)do classico e rituale.
Johnny Depp oramai affiato nel duo col regista (alla settima
collaborazione) è diventato icona di ciascun personaggio di cui veste
e testamento paradigmatico. Una sorta di sfera lunatica nello
spry-gotico di una volta celeste dark: che dire di meglio quando
l’oscurità vezzosa illumina di più (e meglio) di un cielo con luce
avvenente. Nel cinema burtoniano la bellezza è nascosta e si scopre
con contorni attoniti: le forme delle dame in posa sono scheletri
nell’armadio che si gonfiano in cadenza (model-botero) e si dileguano
nel set con maestria e voluttuosità. In questo le grazie di Elizabeth
Collins (Michelle Pfeiffer) sono il barlume chiaroscuro nelle
dispersive stanze di una villa sconfinata con un adombrato e imbevuto
vampiro Barnabas Collins (Johnny Depp). Il ritorno nella sua famiglia
e i duetti con vari ‘ospiti’ (parenti e non) sono teatralmente uno
spasso e distrattamente con un senso di commedia sottotraccia da
rendere il tutto leggero e succoso, spurio e ridente. La verve
recitativa dell’attore del Kentucky è sincopata e glossario di indici
intonati: un movimento del corpo e una posizione esemplare nei vari
ambienti. Il set è il mezzo unico in cui Depp e Burton si confondono
con se stessi. Anche perché lo spettacolo è in diretta e la cattura
dei ‘mostri’ della villa Collins da parte della polizia ha un pieno di
ammiratori: il dietro regia è circondato da comparse e vivi-non-morti
che vogliono essere dentro il cinema super estraniante di un uomo da
‘big-wood’ riprese. Una pellicola in piena esaltazione del gusto
dell’eccesso e dove ogni sua stessa misura richiede un palmo di mano
con colori da pitturare. Infatti la villa è presa d’assalto per la
costruzione scenografica da fuori-onda e da set in metamorfosi dove la
sigaretta si può anche spegnere sopra una tavolozza.
Da dire che il connubio mondo giovanile in avanscoperta (libertà,
pace, droga e sesso) e mondo vampirizzato del moderno(post) di ieri (e
oltre) è accattivante, intrigante e modello di un gioco narrativo non
buttato lì a caso., Tutt’altro. Forse una maggiore compattezza della
scrittura nella parte centrale avrebbe dato giusta linfa ad un’opera
non riuscita al meglio per definirla un piccolo capolavoro. In ogni
caso Tim Burton ha ritrovato una giostra e modi di girare da par suo e
il suo cercare costantemente cose nuove (dentro) ne ingigantiscono lo
sforzo e la voglia di andare oltre. La colonna sonora partecipa
accoratamente alla riuscita del tutto e alcune canzoni d’ambientazione
sono ad hoc. E l’ombra dark regna per bene in tutto il film.
Voto 7½.
(recensione di loz10cetkind)
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