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Il periodo creativo di un artista dura dieci anni. Sono queste le stesse parole con cui ho aperto la recensione di Peter Hammill. Ciò nonostante, Bowie è sembrato a tutti noi che lo amiamo un marziano senza tempo, un musicista capace di attraversare senza danno le ere del rock: una specie di highlander del rock’n’roll. Con il senno di poi, è evidente che il suo decennio significativo è stato quello degli anni settanta, dal personaggio glam di Ziggy Stardust, all’elegante decadente magro duca bianco del plastic soul, fino all’intellettuale berlinese di Heroes. changes...
Negli anni ottanta Bowie ha passato la mano di leader del rock britannico a gruppi come gli Smiths, limitandosi a mettere a reddito la propria fama con l’epopea del Sound+Vision. Lo stesso colpo di mano dei Tin Machine gli è riuscito, a conti fatti, meno ancora dell’operazione della Baia dei Porci a J.F. Kennedy.
Negli anni novanta si è infine ritirato in una citazione vagamente jazz del proprio passato, uno street hassle che voleva essere rivolto ad un giovane pubblico che però non si è lasciato incantare.
Nothing Has Changed è l’ultima in ordina di tempo delle tante antologie di Bowie, che riprende molto puntualmente il tema del cambiamento, che non per niente è stato il titolo della sua prima e più significativa antologia, ChangesOneBowie, replicata in ChangesTwoBowie e ChangesBowie.
Insomma: nulla è cambiato, tutto è cambiato.
Quest’ultimo “Changes” esce in diverse edizioni (per esempio in doppio vinile), le cui più significative sono il doppio CD ed il triplo CD, simili ma anche profondamente diverse.
Mentre infatti il doppio CD è esattamente un comodo compendio discografico ad uso del pubblico che poco o niente lo conosce, il triplo è in qualche modo uno spettacolo diretto al suo pubblico, che fra versioni alternative, rarità, inediti e brani leggendari ha di che soddisfarsi.
Non un’operazione per collezionisti, si badi bene, ma un vero e proprio show, magari di stampo radiofonico, per riassumere ciò che già sappiamo e ciò che ci è sfuggito. Da questo punto di vista una trovata geniale è quella di procedere in ordine cronologico, ma inverso.
Il primo CD comprende dunque gli anni novanta e duemila (ricordando che per dieci anni Bowie è stato assente dalle scene), una “decade” in cui molti dei suoi ascoltatori tradizionali lo hanno abbandonato. È dunque un’occasione ghiotta per assaggiare il Bowie minore e underground, e per verificare se una selezione del materiale possa donarci un buon disco a partire da Outside, Earthling, Hours, Heathen, l’inedito Toy, e Reality. Ognuno risponderà per sé, ma le canzoni di questo disco non mi dispiacciono affatto, anche se gli arrangiamenti pesanti danno l’impressione di guardare una zia inglese avanti negli anni truccata troppo pesantemente. Alla luce del perfetto The Next Day del 2013, tornato agli arrangiamenti essenziali a la Low, mi augurerei un remix di questi brani in chiave minimalista, togliendo i chili di belletto che affogano le canzoni. Chissà, il risultato potrebbe essere sorprendente.
Il secondo CD raccoglie gli anni ottanta del Sound+Vision, sorvolando il celebrato periodo berlinese in soli tre brani, uno per ogni disco della trilogia. Che abbia un significato o sia solo una conseguenza della necessità di Greatest Hits non saprei dire.
Il primo CD è il ChangesOneBowie classico, Ziggy ed il Thin White Duke, con l’aggiunta di ben cinque extra precedenti a Space Oddity, che scavano dal ’64 di David Jones al ’67.
Il tutto al prezzo di mercato di un solo CD. Una scusa ghiotta di riascoltare l’alieno da Marte.
A questo link la sequenza dei brani.
P.S.: C’è anche una canzone nuova, addirittura un nuovo singolo, Sue (Or in A Season Of Crime). Un brano Deco Rock molto jazzato, che purtroppo mi pare non abbia abbastanza groove per restare a galla per tutti i sette minuti della sua durata.
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