Roma, Init.
In una Roma ultimamente sempre più piena di concerti interessanti da vedere, questo mese è venuto dalle nostre parti anche David J. Per chi non lo conoscesse, è l’ex bassista dei Bauhaus, che da quasi vent’anni ha intrapreso anche una discreta carriera solista, oltre ad aver militato, assieme agli altri membri del quartetto (escluso Peter Murphy) nei Love And Rockets.
Arrivo all’Init intorno alle nove e mezza, orario previsto per l’inizio della serata, ma dovrò attendere altri tre quarti d’ora: ad aprire le danze c’è Paolo Taballione, ex membro di band cult dell’underground new wave romano come The Atrocity Exhibition e, soprattutto, Carillon del Dolore (dei quali si consiglia il 12” “Trasfigurazione”, un ottimo mini lp ormai diventato reliquia). Si presenta da solo, accompagnato unicamente da una chitarra acustica, senza alcuna sezione ritmica. La sua set-list è composta per la maggior parte da brani originali, con qualche rimando al suo passato. L’unico problema è che sembra anni luce lontano da quello che era il suo background: questo suo cantautorato convince assai poco, e se ci mettiamo anche il fatto che i suoni non sono proprio eccelsi, si può capire come sia stata scialba la sua performance. A metà concerto aggiunge un delay alla sua chitarra, il che rimanda alle atmosfere sognanti della sua band d’origine: lo show sembra riprendersi, ma poi gli viene l’idea di iniziare a fischiettare, lasciando il pubblico abbastanza perplesso.
I presenti sono ancora molto pochi, e, inaspettatamente, quasi tutti molto avanti con gli anni. Attendevo al varco un tripudio di giovani darkettoni, e invece sembrano tutte persone per bene, assai lontane dal giro di disagiati di vario genere che si ritrova nelle serate che frequento assiduamente (e che poi legge e visita questa webzine): niente mosh, bandana thrash o metallari fuori dal locale col rum acquistato al supermercato. Sono in mezzo a persone normali, con casa e famiglia, e quasi non mi sembra di stare nello stesso posto dove ho visto gente che suona male e nel segno del demonio. Nonostante ciò, tutto prosegue più che tranquillamente.
I secondi a salire sul palco sono gli Illogico, storico gruppo no wave romano. Il loro sound per me è uno strano jazz rock sperimentale, e sono il primo gruppo che mi capita di vedere con un percussionista. Nonostante non ci trovi quasi nulla di innovativo (al contrario di chi vede la sperimentazione come implicitamente originale), sembrano quantomeno interessanti. Suonano quasi solo brani strumentali, eccetto il primo, dove canta il bassista, e l’ultimo, nel quale sale sul palco un cantante che emette vocalismi che ricordano molto il mai troppo compianto Demetrio Stratos, sebbene il resto del gruppo sembri lontano anni luce dal progressive mediterraneo degli Area.
Terminato lo show degli Illogico, è il turno degli Style Sindrome, una band post-punk ormai lontana dalle scene da diversi anni. Il loro ritorno, però, non è casuale: la Synthetic Shadows ha raccolto le loro vecchie demo su di un unico lp, “A Misterious Design”, che presentano questa sera. La formazione, eccetto il bassista, è quella originale, e devo dire che sono tutti in ottima forma. Il locale ora è mezzo pieno e un po’ tutti accolgono assai bene il quintetto (sarà anche perché sono l’unico gruppo che propone la new wave che tutti si aspettavano). Stilisticamente gli Style Sindrome sono molto vicini a Siouxsie And The Banshees (la cantante Anna ha anche una voce molto simile, sebbene un po’ più soffice e versatile), anche se riprendono un po’ da tutti i capisaldi del genere. Colpisce molto il loro lato “etereo”, soprattutto la scelta di una chitarra quasi sempre accompagnata da un chorus e da un sassofonista che però ha anche dei vari effetti psichedelici, coi quali riproduce atmosfere oniriche (soprattutto nella traccia che dà il titolo al disco). Alla fine giungono le richieste di bis, loro ringraziano con una “Waving In The Dark” accolta con grande calore.
Cresce ora l’attesa per David J, che si presenta una mezzora dopo: anche lui senza batteria, è però accompagnato da un tastierista e da un bassista. Eccetto quest’ultimo, la performance è quasi tutta acustica, e sembra di sentire una versione unplugged di Lou Reed o di David Bowie (il che, visto il background dell’ex Bauhaus, non stupisce nessuno). Anche se è strano, in diversi se ne sono già andati o seguono assai distratti quello che l’artista inglese ha da dire. Forse per un problema con l’audio, si sentono quasi più le chiacchiere dei disinteressati che la band. Devo ammettere che è quasi impossibile non emettere rumore che non sia percettibile (a un certo punto calpesto un bicchiere di plastica, e quasi si sente tanto quanto gli altri strumenti), ma David J non sembra curarsene. Al contrario, fa buon viso a cattivo gioco e non solo continua a suonare, ma fa anche battute riguardo agli innumerevoli inconvenienti tecnici che gli capitano durante la serata. Sebbene tutto il chiacchiericcio dietro di me sia davvero fastidioso, davanti ad una reazione così positiva e non curante di ciò che fa il pubblico, non può non tornarmi il sorriso. Il materiale proposto fa parte quasi esclusivamente – com’era lecito aspettarsi – della carriera solista di David: c’è poco spazio per ciò che lo ha reso famoso. Non sono tutti così contenti della cosa, ma sembrano comunque abbastanza soddisfatti del concerto.
È un po’ strano il fatto che questa serata, spinta come evento goth, fosse per ¾ composta da altro. Personalmente, con tutto che avrei preferito qualcosa più a tema, posso dire di aver assistito ad un concerto quantomeno avvincente.
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