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David Lynch – Ritratto

Creato il 03 novembre 2015 da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

David Lynch, classe 1946, è senza ombra di dubbio uno dei più originali cineasti statunitensi degli ultimi decenni. Nella sua lunga carriera ha vinto due meritatissime Palme d’Oro al Festival di Cannes, due premi César e un Leone d’Oro alla carriera.
Attraverso i suoi film, col passare degli anni, ha introdotto nel cinema americano uno stile particolarissimo: un puzzle inestricabile, in cui convivono mistero, perversione ed ambiguità, sempre a cavallo del confine indistinto che esiste fra il sogno e la realtà.david-lynch-ritratto
Personaggio carismatico, geniale quanto visionario, ha sempre mantenuto un riserbo quasi ossessivo sul significato delle proprie opere. Si è mostrato aperto a digressioni verso altre forme artistiche: dalla pittura alla musica, dal design alla televisione (se questa può essere considerata una “forma d’arte”), sviluppando uno stile narrativo del tutto innovativo. I suoi film, pertanto, risultano inconfondibili al pubblico internazionale: sia per quanto concerne l’energica componente surreale, sia per quanto riguarda le loro sequenze oniriche, in cui molto spesso immagini crude e bizzarre vengono accompagnate da colonne sonore estremamente suggestive.
Nonostante non sempre abbia riscosso un grande successo al cosiddetto “box office”, David Lynch è universalmente apprezzato dai critici e, allo stesso tempo, continua a godere di un nutrito seguito di appassionati.
Spesso i suoi lavori hanno esplorano il lato oscuro delle piccole città statunitensi (“Velluto blu”) e delle metropoli caotiche (“Strade perdute” e “Mulholland drive”), giungendo a sondare i lati più oscuri ed intimi della mente.

Il suo esordio con “Eraserhead – La mente che cancella” (1977), suscitò un immediato scalpore fra gli addetti ai lavori. Il film venne pesantemente massacrato dalla critica ufficiale, ma fu successivamente riscoperto dal pubblico che lo fece assurgere al rango di cult-movie (specialmente nei circuiti “non ufficiali”). Mel Brooks, cineasta piuttosto originale, si accorse immediatamente del nitido talento di Lynch. “Sei pazzo, ma mi piaci”, esclamò in maniera lapidaria, scegliendo di affidargli la regia di “The Elephant Man” per la sua casa di produzione.

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E proprio con “The Elephant Man” (1980) il regista ottiene il suo primo successo, suggellato da ben otto candidature agli Oscar. La vicenda del deforme John Merrick, scoperto da un medico durante uno spettacolo itinerante, fa riflettere e commuovere allo stesso tempo, diventando un perfetto apologo sulla speculazione e sulla crudeltà. Pur non contenendo i consueti “virtuosismi” di Lynch e rischiando, a tratti, di diventare un mero esercizio di accademia, la pellicola fa meditare a lungo sulla natura umana, sulle sue aberrazioni e mostruosità (più interiori che esteriori).

Nel 1984, Lynch dirige “Dune”: un fantasy ermetico ed innovativo tratto dal romanzo di Frank Herbert. Nonostante l’iniziale incomprensione del pubblico – causata soprattutto dall’astrusa complessità della trama – il film introduce alcuni degli elementi che torneranno spesso nelle opere successive quali la potenza dell’immaginazione, la presenza di monologhi interiori pieni di mistero ed il ricorrere incubi indistinti. E così la vicenda narrata riesce essere allo stesso tempo epica e mistica, in un ricercato equilibrio tra antico e moderno che ha fatto definire la pellicola una sorta di “fantascienza del passato”.

Con “Velluto blu” (1986), il regista raggiunge piena la maturità stilistica. Provocatorio e spregiudicato, grottesco e romantico, il film si dipana lentamente, mostrando la psiche conflittuale del protagonista Jeffrey, diviso tra sesso ed amore, morbosità e purezza. E così, nell’arco dei 120 minuti della trama, si scoprono evidenti commistioni tra cinema e sogno, realtà e finzione, incubo ed immaginazione.

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Il film successivo, “Cuore selvaggio” (1990), conferma appieno il talento del cineasta. Gli elementi metaforici e grotteschi, propri della cinematografia lynchiana, si sviluppano con insistenza ed arrivano a mescolarsi con una violenza che, oggi, potremmo sicuramente definire come “tarantiniana”: ne scaturisce una pellicola perversa e sensuale, violenta ed estetica, che fuoriesce dagli schemi logici del “comune sentire”.

Una vera e propria svolta nella carriera di David Lynch giunge con “I segreti di Twin Peaks” (1990-1991), una serie TV in 6 episodi. Ambientata in una cittadina rurale, dove dietro un’apparenza di perbenismo si celano intrighi e segreti, la serie conquista immediatamente i gusti del pubblico di tutto il mondo: costruita in maniera eccellente, nasce come giallo avvincente con al centro l’omicidio di una ragazza, diramandosi poi attraverso una serie di misteri paralleli, tra l’esoterico ed il paranormale, in pieno “Stile Lynch”.

La stagione successiva il regista torna al grande schermo con “Fuoco cammina con me” (1992), pellicola che costituisce una sorta di prequel/sequel della serie televisiva. Si tratta a tutti gli effetti di un’opera minore, che non aggiunge grandi guizzi alla cinematografia di Lynch ma in cui sono comunque riscontrabili quegli elementi metaforici, inquietanti e misteriosi che appartengono all’immaginario dell’autore statunitense.

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Dopo un periodo di lontananza dagli schermi durato cinque anni, nel 1997 Lynch gira “Strade perdute”. Il film costituisce il punto di non ritorno della filmografia del regista: un esempio di cinema moderno, noir e terrificante, percorso da parecchi sentieri sconosciuti, ognuno avvolto in una propria luce misteriosa che gioca a dissolversi fino a tramutarsi in oscurità. Complesso, misterioso, simbolico, rappresenta una sorta di manifesto di quel modo un po’ bizzarro di fare cinema proprio del cineasta, che arriva spesso a flirtare con l’irrazionale.

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Con “Una storia vera” (1999), Lynch cambia completamente registro. La sceneggiatura, che trae spunto da un fatto realmente accaduto, racconta la storia di Alvin Straight, un contadino dell’Iowa che a 73 anni di età intraprese un lungo viaggio a bordo di un piccolo trattore per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Minimalista, essenziale, commovente, la pellicola è un vero e proprio “road movie”, girato con sensibilità ed attenzione ai minimi dettagli. Si può dire che questo film abbia fatto scuola: parecchi registi, negli ultimi anni, sono stari influenzati dallo stile meraviglioso di “Una storia vera” (in particolare va citato il ”nostro” Paolo Sorrentino, che ha dichiarato di essersi ispirato al film di Lynch per il suo “This must be the place”).

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Nel 2001, l’autore torna al suo cinema più tipico con “Mulholland Drive”. In questa opera, probabilmente, tutti i film precedenti del regista trovano una sorta di ideale compimento: una forma classica e ben definita emerge improvvisamente da un discorso che, nel corso degli anni, è sembrato quasi un “perdersi” edonisticamente e senza una meta precisa. Questo film ha raggiunto lo status di cult sin dall’uscita, con molte interpretazioni sulla storia e sul suo simbolismo; Lynch, come per tutte le sue opere, non ha però dato alcuna spiegazione a proposito del “vero significato” della vicenda narrata.

L’ultimo film di David Lynch è “Inland Empire – L’impero della mente” (2006). Disorganico, difficilmente comprensibile e tutt’altro che lineare rappresenta – come ha sostenuto qualche critico – un’ “esperienza sensoriale”: il flusso ininterrotto del libero pensiero di un artista che non richiede spiegazioni, ma solamente intuizioni ed emozioni personali.

Dopo questa rapida carrellata, possiamo definire David Lynch come uno dei talenti più rivoluzionari, visionari ed autentici dell’ultimo trentennio. Autore di pellicole capaci di trasmettere ossessioni e perversioni, deformità e devianze, inquietudini ed orrori, le sue opere arrivano spesso a mostrare percezioni deformanti, avvinte in vortici onirici.
La statura intellettuale di Lynch sta soprattutto in questo: nella consapevolezza che non sono necessari sforzi per realizzare un film, se prima non ci si perde completamente all’interno di un’idea.

Piergiorgio Vigliani



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