Accadeva esattamente 20 anni fa, il 9 marzo, al quinto palazzo ENI in quel di San Donato Milanese; era l’inizio dell’indagine su quella che verrà ricordata negli annali come la “madre di tutte le tangenti” di Tangentopoli e che portò al terremoto politico che tutti conosciamo. E io ero lì, nell’epicentro.
L’allora presidente dell’ENI Gabriele Cagliari fu condotto in manette in carcere proprio quella mattina, dal quale uscì qualche mese dopo solo per essere condotto direttamente al cimitero a causa di un suicidio sul quale rimasero troppe ombre.
Il 9 marzo 2013 invece si sono celebrati i funerali di David Rossi; una curiosa coincidenza, ma non l’unica in queste due vicende parallele con molte similitudini e molti interrogativi irrisolti.
Questa volta però c’è una telecamera della sicurezza che riprende l’ex responsabile della comunicazione di MPS mentre precipita dal terzo piano di Rocca Salimbeni, al termine di una lunghissima e misteriosa telefonata ricevuta nel tardo pomeriggio.
L’ipotesi più accreditata sembra quella di istigazione al suicidio e di fortissime pressioni subite negli ultimissimi giorni di vita. Gli investigatori trovano una scrivania in perfetto ordine su cui poggiano incartamenti ordinati e un cd musicale, coerente con l’immagine di persona rigorosa, riflessiva e analitica che accompagnava David Rossi. Ora passeranno al setaccio SMS e chiamate rimasti sui quattro telefoni cellulari del Rossi (tra cui quello utilizzato per l’ultima telefonata), oltre a tutti i files e tutte le email (anche quelle cancellate) conservati sui suoi pc e sulle chiavette usb.
Ora veniamo ai lati oscuri della vicenda, a partire dal video che racconta di un salto nel vuoto con stile Fosbury, una dinamica decisamente inconsueta.
Prima di questo, David Rossi pranza sereno com la moglie e il fratello, quindi sul tardo pomeriggio avvisa la famiglia che sta rincasando: un comportamento piuttosto insolito per chi si sta per suicidare. Altre persone hanno confermato che quella mattina Rossi appariva per niente preoccupato. Poi però arriva la famosa telefonata che lo impegna per oltre un’ora, mentre quelle della moglie e del fratello rimangono senza risposta.
Nessuna parola alle persone più care: un comportamento che ha stupito lo stesso fratello della vittima: “ha preferito andarsene, così, senza neppure salutarmi e di questo sono molto incazzato“.
Alla moglie sembrano indirizzati tre biglietti di addio ritrovati nel suo ufficio e cestinati prima di riuscire a esprimere una frase di un certo significato. Verrebbe anche da chiedersi perché un manager con vari pc e quattro cellulari, forse cinque, nelle sue ultime ore di vita compie lunghe telefonate, manda SMS, ma per le parole più importanti della sua vita sceglie la trascrizione su carta. E le cestina.
La figlia Carolina viene mandata dalla madre perché suo padre si trova ancora nel suo ufficio quando, nonostante alcune ore prima aveva avvisato che stava rincasando. D’altronde, pare che Rossi abitasse a soli 500 metri dall’ufficio, circa 7 minuti a piedi. Quando arriva però è troppo tardi, perché per suo padre, caduto nel vuoto verso le 20,15, non c’è più nulla da fare.
Per lei e per il proprio fratello, pare che David Rossi di parole non ne abbia lasciate: anche questo è singolare.
Per quanto riguarda invece le indagini, perché limitarsi a prelevare alcuni files dal computer? E’ possibile che David Rossi, che evidentemente non era uno sprovveduto, non abbia pensato a conservare sul cloud una o più copie dei documenti più delicati, dopo un trattamento di criptatura? E’ ragionevole non escludere che il responsabile della comunicazione di MPS, la più antica banca del mondo e terza banca italiana, possa aver lasciato informazioni importanti su Dropbox o Skype? Bazzecole, per colui che aveva dovuto gestire la più grande crisi mediatica italiana dell’ultimo trentennio. Per anni era riuscito a nascondere gli affari torbidi di MPS e, contemporaneamente, a creare un’immagine positiva intorno al Gruppo (con 355 milioni di Euro spesi in pubblicità nel periodo 2006-2011).
Chi ha terrorizzato David Rossi? E’ difficile dirlo, perché a Rocca Salimbeni sono rappresentati più o meno tutti: partiti, Chiesa, Opus Dei e persino la massoneria. Gli inquietanti intrecci con la massoneria ci portano a Stefano Bisi, vicedirettore del Corriere di Siena nonché potentissimo capo della Massoneria toscana. Questa persona descrisse il “sistema Siena” come un ”groviglio armonioso di enti e società che fanno riferimento sostanzialmente al sindaco, al presidente della provincia, al presidente della Fondazione Monte dei Paschi e al presidente della Banca Mps“. Una macchina perfetta.
Non tutti però sanno che da tre anni Siena, centro nevralgico della massoneria italiana, è la culla della più grande guerra massonica che si sia mai vista.
Una guerra ben più grande di quella che scoppiò all’indomani dello scandalo P2, quello che costò la vita a Roberto Calvi, il “banchiere di Dio” il cui bizzarro suicidio non ha mai convinto: guarda caso, nel crack del Banco Ambrosiano erano rappresentati partiti, IOR e massoneria.
Una settimana dopo il ritrovamento del banchiere massone, morì suicida anche Graziella Corrocher, la sua segretaria personale, gettandosi dal quarto piano del banco Ambrosiano.
Finanza e media. Massoneria e media. Anche Roberto Calvi comprese l’importanza del controllo dell’informazione, tanto che nel 1981 riuscì a prendere il controllo di Rizzoli SpA.
Per rendere l’idea del controllo che David Rossi aveva sulla comunicazione del Gruppo MPS, basti guardare lo sbando totale in cui questa versa ora che è rimasto orfano del suo vertice: per esempio, perché David Rossi sul sito di MPS compare ancora come responsabile dell’area comunicazione?
Sono parecchi i commenti che leggo in rete da parte di persone perplesse sulle cause della morte di David Rossi e che si pongono interrogativi simili: sarà che in passato caffè letali e ponti dei frati neri ci hanno ispirato teorie complottiste, sarà per la singolare omonimia con il protagonista di Criminal Minds, ma è una di quelle situazioni in cui l’elaborazione razionale dei fatti si scontra inevitabilmente con le reazioni di pancia.
Per ora chiudo qui, con quella sensazione strana che, anche stavolta, non ne vedremo delle belle.
Roberto Favini | @postoditacco
David Rossi and MPS, the same shadows 20 years later
I couldn't believe my eyes: there were policemen, carabinieri and men of the Finance Guard everywhere, blocking the access to the area, surrounded by an undefined number of police vehicles. A true and proper military action.
The newspaper decides to publish them, without indicating the name of the photographer, since he wants to remain anonymous (besides, his identity is absolutely not relevant in order to understand what happened). I read this article and I'm quite curious, because I know the area. So I analyze the pictures and cross-check them with Google Maps, projecting the trajectory on the surrounding buildings, and in a few minutes I identify the window from which the pictures were taken. Immediately I think that, just like I did, the ones responsible for the crime might do it as well.
What I do ask myself is how much awareness of the possible consequences there has been, both in that citizen, and at the online newspaper. The first, maybe bravely aware, maybe blinded by the search of his 15 minutes of fame, mustn't necessarily have any particular competences, if not being a territorial sensor at the service of his community. But can the online newspaper not know about the possibilities of triangulation of information through online media and social media?
The editorial choice of showing images of a person left unconscious on the ground can offer added value to the news, beyond feeding the morbid curiosity of part of the readers? Must it take into account the risk that the sources might be taking? Must they inform the author of the pictures about what he or she is risking, even if convinced that it is sufficient to not publish the name?
Is it legitimate to think that, beyond the photos that were published, there were others that clearly identify the responsibles and that were given to the police? And what if the criminals were not as capable as I was in identifying the casual photographer, maybe accusing his neighbor? Judging from what is in the article, the newspaper wanted to maintain its sources anonymous, but evidently it has committed a big mistake.
Disclaimer: I intentionally didn't include any reference to places or names.
Now let's change geographic area and let's go to the other side of the Atlantic, in New York. A few days ago, the NY Post has put on front page the picture of a man intentionally pushed on the subway tracks in NY while a train is passing. The photo was taken by a freelance photographer present at that moment: he took 49 photographs with the flash, hoping to signal the driver of the train the dangerous situation.
The reconstruction describes a scene in which even other people waiting tried to attract the driver's attention, but nobody seemed to materially help the unfortunate man from the deadly trap, even if his destiny seemed to be signed. The impact is awful, 22 seconds later; in spite of the evidence that there's nothing left to do, a doctor present on the scene tries CPR on the victim. Later she will say:
“It was apparent there was not much I could do -- but you can’t not do something, you have to try”.
The editorial choice of the NY Post has divided the public opinion: what added value has the published photograph offered? Showing death in its inevitability and causing a shock effect among the readers? What if it happened to one of our own relatives, how would we have reacted at the publication of these pictures, which were by the way shared on blogs, Facebook and Twitter?
What is the line between ethics, responsibility and editorial opportunity?
Roberto Favini | @postoditacco