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È successo in questi giorni: David Miliband ha annunciato le sue dimissioni. È volato a New York, dove presiederà l'International Rescue Comitee.
Vero che il collegio di South Shields, nella Tyne and Wear, non è il posto dei sogni; e vero pure che la dimensione internazionale era quella naturale, per il suo ruolo politico. Il calcolo e gli equilibri che ci sono dietro, però, sembrano cosa più grossa: ma sono tutto affar loro. Abbiamo già guai paesani, non prendiamoci anche quelli d'oltremanica.
È però guardando questo nuovo atto dello scontro fraticida tra i Miliband, che mi è sembrato di vedere specchiata la situazione del Pd nostrano.
Un partito - il nostro come il loro - alle prese da sempre con il posizionamento socialista o liberale. Là vinse Ed, il socialista dei due: qui pure, in fin dei conti.
Ma qua da noi, il problema – ahimé! – non è mai stato centrato sulla profonda discussione di orientamento politico ideologico: che innalzerebbe il tono del discorso fino alle ragioni filosofiche dell'esistenza dem. Qui da noi la questione è più terrena. Più fisica che metafisica. E questo duole, rammarica e rattrista.
Guardo alla scelta del Capogruppo alle Camere: per ogni Zanda serve uno Speranza. E guardo a Letta vicino a Bersani ai tavoli delle ricognizioni politiche dei giorni appena passati. E ricordo il periodo dei comitati promotori e delle due anime Dl e Ds. Stesso schema, ancora. Una dicotomia alimentata, purtroppo, da ruoli, bilanciamenti, posizioni yoga nei posti del potere, piazzamenti tattici e strategie di frontiera. Tutto molto terreno. Poca filosofia dietro a questo, qualche concessione agli altri, ma giusto per tenerli buoni.
Il discorso dell'orientamento ideologico, nel Pd italiano, si è sempre discusso così: senza mai trattarlo veramente, cioè. Il guaio è questo, ed è questo il metodo che si continua a perpetrare. Chiunque provi – chiaramente in minoranza interna – ad innalzare il rango della speculazione, a spostare un po' in là la discussione, viene subito circondato da bulli spartani pronti a combattere. Perché l'anima socialista non va discussa.
E non solo dunque nel merito della questione sta il male: personalmente vorrei un Pd più liberal, ma cosa importa?
Quel che conta è non stupirsi poi, per l'incredibile calo di consensi e di appetibilità del partito, perché questioni del genere passano fuori. Quelli (parlo grossolanamente, so che un buon pezzo di partito era già renziano) che avevano votato senza allineamenti, senza la necessità di posizionarsi, senza la volontà di darsi continuità, voti liberi e puliti, voti voluti e non dovuti: quelli avevano un'idea chiara per il Pd. Quelli hanno perso.
Non servono spiegazioni per capire che il problema sta nel partito in sé. Un partito che è troppo spesso dissociato dalla realtà, è autoreferenziale, è senza leadership. Partito che non ha saputo, pensando male di Renzi, cogliere l'occasione di risolvere questi crucci in una sola volta.
La realtà è qui, comunque: adesso la gente vuole un leader e lo vuole liberal. Lo vuole il popolo del Pd e serve all'Italia.
David è volato a New York e si è chiamato fuori: ambizioni frustate, orgoglio, dignità. Matteo è a Firenze, fermo immobile, vincitore morale.
Vado oltre la fugace parentesi che rappresenterà questo nascituro governo: in UK è già pronto il successore, dunque chi può essere il nostro Chuka Umunna?
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