Ne ho parlato nel post precedente, mi permetto di riprodurre un altro passaggio del mio articolo per la rivista Imperi:
Una visione [quella di Davutoğlu] che è anche di completa rottura con la tradizione kemalista, invece imperniata sul primato della sicurezza militare, sulla percezione dei vicini come nemici non solo potenziali, su un generale isolamento, sulla granitica fedeltà (con qualche piccola crepa, l’invasione di Cipro nel 1974) all’Alleanza atlantica e all’Occidente della Guerra fredda come antemurale anti-sovietico; un piano di azione criticamente definito dai sui detrattori “neo-ottomano”: il rigurgito imperiale dalla legittimità e connotazione islamica, la tentazione di dominio neo-califfale per imporre la supremazia di Ankara su tutto ciò – territori, beni, persone – che appartiene all’ex Impero ottomano – in Asia, in Africa, nei Balcani.
All’ex professore questa etichetta non piace, lo ha affermato a più riprese e ad esempio nel celebre discorso di Sarajevo del 16 ottobre 2009: in cui ha invece rivendicato l’eredità ideale dell’Impero ottomano fatta d’integrazione multiculturale e multireligiosa, di apertura agli scambi e centralità nell’economia globale dell’epoca, di circolazione delle élites citando i casi del bosniaco Mehmed Sokolović divenuto il gran Vizir Mehmet Paša Sokollu e dell’albanese Mehmet Ali divenuto Khedive e fondatore dell’Egitto moderno. “Come il XVI secolo vide l’affermazione dei Balcani ottomani come centro della politica mondiale, renderemo in futuro i Balcani, il Caucaso e il Medio oriente di nuovo il centro della politica mondiale. Questo è l’obiettivo della politica estera turca: e lo conseguiremo!”