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De codicibus servandis

Creato il 05 agosto 2013 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua

Se incombesse una catastrofe e poteste scegliere di mettere in salvo con voi un solo libro, quale scegliereste?
Una domanda puramente speculativa, dato che i Maya sembrano averci beffati alla grande, eppure spesso ci prestiamo a rispondere a questo quesito ludico. In passato, però, qualcuno che ha dovuto porsi seriamente il problema del salvataggio di un testo c'è stato, e in più di una occasione. Incendi, distruzioni di luoghi di cultura o il semplice il deperimento legato al trascorrere del tempo hanno più volte provocato la perdita di ingenti quantità di scritti antichi e medievali.
Ma, allora, perché leggiamo determinati testi e non altri? Può definirsi casuale il fatto che disponiamo di diverse copie di certi manoscritti ma di altri non ci resti nulla?
La risposta, ovviamente, è un sonoro e corale "No".
De codicibus servandis
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La storia della letteratura antecedente all'invenzione della stampa (1456), che ha permesso di velocizzare i tempi di replica del testo e di ridurne notevolmente i costi, è un continuo processo di selezione e attribuzione di priorità.
L'interesse alla trasmissione grafica dei testi è un'innovazione recente rispetto alla nascita della scrittura stessa, basti pensare che in Grecia il processo di fissazione scritta dei poemi omerici, tramandati oralmente per secoli, si data a partire dall'VIII secolo, sebbene la forma definitiva in cui li leggiamo oggi sia il frutto della selezione voluta, secondo la tradizione[2], da Pisistrato (561-527 a.C.) e dell'ordinamento imposto dai filologi alessandrini nel III-II sec. a.C.
Prima della rivoluzionaria innovazione di Guttenberg, l'unico modo per trasmettere un testo era copiarlo a mano. Sono ben intuibili i disagi legati a questo tipo di pratica, poiché conservare e trasmettere i documenti era molto complicato: all'elevato grado di logorabilità del papiro usato per i primi volumi e al costo non indifferente della pergamena si univa il rischio di combustione, comune ai due materiali: in un mondo in cui si leggeva alla luce delle candele, la distruzione di intere biblioteche in incendi anche involontari era un fatto per nulla raro.
Nell'antichità greca e romana biblioteche, musei e accademie garantivano una efficiente funzione culturale e un buon grado di accessibilità ai testi, al punto che, in età ellenistica, a tutte le città che disponevano di copie di documenti letterari, storici o scientifici veniva imposto l'obbligo di prestarle agli studiosi di Alessandria per realizzarne delle copie. A queste strutture si aggiungevano le scuole e i circoli di intellettuali, sede di produzione, fruizione e conservazione di volumi. Con la crisi del mondo antico, la caduta dell'Impero romano d'Occidente e l'imbarbarimento della società, lo studio, la lettura e la tradizione dei testi divennero appannaggio degli ecclesiastici ed entro i monasteri, piccole fortezze della cultura, sorsero studioli, biblioteche e centri di copia dei manoscritti.
Solo con l'Umanesimo e i suoi prodromi tardo medievali entro cui si inserisce, ad esempio, l'affannosa ricerca di Francesco Petrarca alla ricerca dei codici latini nelle biblioteche dei monasteri, i manoscritti escono da questi laboratori e divengono oggetto di un lavoro sempre più specialistico di ricostruzione, correzione e divulgazione, in un processo che raggiungerà le sue massime vette nel XIX secolo[3].
De codicibus servandis
Un simile quadro ci aiuta a riconoscere tre ordini principali di cause di distruzione e perdita dei manoscritti e, quindi, tre motivi per cui ci sono pervenuti certi e non altri documenti.
Il primo, più o meno riconducibile al caso, è la devastazione delle biblioteche e dei centri di sapere antichi e medievali: il caso più eclatante è quello degli incendi della Biblioteca di Alessandria (prima nel 48 a.C., poi in epoca tardo-antica), ma non hanno avuto sorte migliore la biblioteca pubblica del portico di Ottavia a Roma (bruciata nell'80 d.C.), quella di Costantinopoli (saccheggiata e messa a ferro e fuoco durante la IV crociata, nel XIII secolo e nel 1453 nel corso dell'assedio turco) o gli studioli dei monasteri esposti per tutto il Medioevo a incursioni di briganti e milizie di varia provenienza.
In secondo luogo, ci sono stati motivi ideologici e religiosi, poiché accadeva spesso (ma non sempre) che i monaci amanuensi censurassero o eliminassero testi di ispirazione troppo marcatamente pagana o materialista: in questo senso, Il nome della rosa docet.
Il terzo criterio di selezione, anch'esso riconducibile a scelte deliberate, era il successo di un autore, il riconoscimento del suo valore esemplare, la consapevolezza di volerne salvaguardare le parole per l'alto livello dei contenuti o dello stile. Si decideva, insomma, di concentrarsi su determinati documenti a scapito di altri. Ad una simile operazione, cui ricorrevano già i filologi alessandrini, era sottesa l'elaborazione di un canone, ovvero di una lista di autori notevoli che brillavano sugli altri come la luce del mitico faro della città.
De codicibus servandis
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Guardando alla sola produzione drammatica dell'Atene del IV e V sec. a.C., cioè al momento di maggior fervore culturale della capitale del mondo greco, dobbiamo constatare che di circa 1700 tragedie che si stimano andate in scena dal 535 alla Guerra del Peloponneso, ne rimangono solamente 31 (quelle dei tre tragici 'canonici', Eschilo, Sofocle e Euripide), mentre di circa 600 commedie prodotte possediamo solo 11 testi di Aristofane. La sorte degli altri generi letterari non è migliore, se solo pensiamo che la più grande opera storiografica latina, Ab urbe condita di Tito Livio, importantissima già nell'antichità, è orribilmente mutilata.
Non potremo mai fare una stima precisa della quantità di libri perduti, né saremo mai abbastanza grati a Gutenberg per aver arrestato questo processo di deterioramento e devastazione. Non possiamo però fare a meno di chiederci cosa sarebbe del nostro mondo, del nostro sistema culturale e ideologico, delle nostre abitudini se al posto dei testi che ci sono pervenuti se ne fossero salvati altri. Saremmo poi così diversi? La storia avrebbe visto vicende radicalmente differenti? Il nostro modo di godere delle arti sarebbe lo stesso?
C.M.
NOTE:
[1] Ringrazio Valivi, del blog Acqua e limone, che, rispondendo ad un mio commento sul suo post dedicato al film Agorà, mi ha dato lo spunto per scrivere questo articolo. Nella foto, Rachel Weisz nelle vesti di Ipazia mentre mette in salvo alcuni manoscritti dalla distruzione della Biblioteca di Alessandria da parte dei fanatici cristiani; nella scena da cui è tratto il fotogramma, vediamo la filosofa prodigarsi per il salvataggio dei documenti degli 'autori maggiori'. Il titolo del post recita "Sui codici da preservare".
[2] Cicerone, De oratore III, 537.
[3] I metodi filologici applicati al recupero e all'emendazione dei testi antichi nascono in relazione alla ricostruzione delle Sacre Scritture.
[4] Uno dei plutei (leggii con contenitore per i manoscritti) della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Ai lati di ogni elemento è posta una colonnina di indicazioni sui testi contenuti nei singoli banchi.


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