De gustibus est dispuntandum

Creato il 06 maggio 2015 da Albertocapece

Il vero Expo si è aperto con il tiro mancino tirato da McDonald, uno dei principali sponsor della manifestazione, ai danni di gastrofighetti milanesi comprensivi di blogger culinari e cuochi televisivi salvati dalla figuraccia all’ultimo momento: in una sede appositamente allestita ha presentato  come “hamburger gourmet”, l’ultima moda dei foodcitrulli, panini esattamente identici a quelli serviti nei propri ristoranti, solo accomodati su vassoi di ardesia e attribuiti all’estro di due ex concorrenti di Masterchef. Successone: questi sì che sono hamburger, altro che McDonald. La stessa cosa si è verificata in Olanda dove i grondanti prodotti della multinazionale sono stati presentati come prodotti bio riscuotendo acclamazioni con tanto di appassionate dichiarazioni di mangiasanisti felici del fatto che i prodotti biologici possano essere gustosi come quelli normali.

Questo non è che un esempio nel campo culinario, di una cosa risaputa a livello generale: gran parte della percezione è dovuta alle aspettative che si hanno su di essa. Una schifezza sarà tendenzialmente deliziosa se viene dallo chef famoso e una porcheria se servita nella pizzeria sotto casa (*vedi nota), un vino in cartone potrebbe sembrare meraviglioso se presentato come ambrosia o un abito parrà di buon gusto se porta una firma e pessimo se invece manca di questo requisito modaiolo. Oppure una pillola sarà efficace se crediamo che non sia solo zucchero. E’ il principio del placebo /nocebo, quello stesso che, per esempio, obbliga a testare l’efficacia dei farmaci in doppio cieco e che dimostra come il pre-giudizio sia la parte prevalente del giudizio. Certo non è una scoperta di ieri, ma suscita sempre stupore e incredulità quando si manifesta in maniera inequivocabile in campi di esperienza comuni e getta un’ombra sulla nostra scala di valori e sulla nostra presunta autonomia. Perché alla fine de gustibus est disputandum. Eccome.

Sebbene si tratti di un giallo irrisolto, questo fatto che sia il contesto a determinare il significato dei singoli componenti e in definitiva che sia il noi a costituire l’io  appare sconcertante, angoscioso e incredibile in una cultura che ha fatto dell’individuo il solo fondamento della società. Un individuo che è legittimato dal proprio successo a sfruttare gli altri o condannato dal proprio insuccesso allo sfruttamento come espiazione di una colpa. Naturalmente dentro questa sorta di etica e questo orizzonte ciò che definisce il gustoso dallo schifoso, il brillante da mediocre, il salubre dal malsano, il bello dal brutto è la quantità di denaro che implica: lo stesso panino è diverso se pagato due o venti euro, lo stessa persona ci apparirà un genio in tv e un cretino dal vivo. E questo vale per qualsiasi entità dell’universo consumistico.

Naturalmente ciò che nel campo della percezione appare come uno “scandalo” rispetto al senso comune, tanto che alcuni pensano davvero che il loro palato sia alieno da qualsiasi influenza che non venga dalle papille gustative, agisce, in maniera meno evidente e più ambigua, anche nel campo dei giudizi più complessi e razionali. Per fare un esempio vicino all’Expo dal quale abbiamo preso le mosse, non è il ragionamento, ma il contesto narrativo prevalente a decidere quali siano le fattispecie che determinano la legittimità dell’esercizio della violenza che si è avuta a contorno dell’inaugurazione. Così le stesse persone che si sono lamentate del fatto che la polizia non abbia ammazzato di botte i black bloc di Milano, rimangono scandalizzate dalle manganellate di Bologna verso i contestatori di Renzi: ma se la violenza è praticabile, quali sono i limiti in cui essa è legittimabile? Per quanto possa sembrare strano non c’è un giudizio razionale, ma solo uno pragmatico dato dall’orizzonte nel quale si agisce. La stessa cosa potremmo dirla sul terrorismo che sembra essere un problema radicale dell’oggi e che tuttavia è indefinibile se non alla luce  di un pre – giudizio tanto che le stesse persone o gruppi sono alternativamente giudicate patrioti, liberatori, alleati  oppure nemici e terroristi.  E naturalmente si potrebbe continuare quasi all’infinito con aporie, pirandellismi, questioni indecidibili.

Viviamo in un tempo in cui l’individualità è mitizzata purché sia conformista e in effetti il nostro io è costituito più che da un noi di cui si è persa traccia, da un loro. Viviamo in un tempo in cui i rapporti sociali, le relazioni di lavoro, le disuguaglianze, le ingiustizie non possono essere messe in discussione, ma si ha in compenso la libertà di non essere come si vuole.


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