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Pellicola notevole perché sebbene vengano ricalcati (ottimamente) i soliti stilemi del genere, ovvero: ci troviamo in un mondo crepuscolare (il tempo viene difatti misurato “in crepuscoli”) dovuto ad una non precisata esplosione radioattiva, le strade appaiono come discariche in cui i palazzi sono ormai giganteschi scheletri pericolanti, i cadaveri affiorano qua e là a simbolo di una civiltà perduta, e i grappoli di umanità sopravvissuti cercano di arrangiarsi come possono, nonostante tutto questo, il film riesce davvero, ma dico davvero perché ho spesso sentito associare più volte immeritatamente a questo genere l’espressione “perdita della speranza”, a essere un film totalmente disperato, cupo, lontano da un qualsiasi tipo di salvezza, per noi e per i personaggi sullo schermo.
Ecco, i personaggi. Lopushansky si concentra su un manipolo di uomini rinchiusi in quello che una volta era un museo (esposizione di un passato lontano ere ed ere dal presente), dove vive, tra gli altri, uno scienziato premio nobel per la fisica che ha perso il figlio durante il disastro nucleare. Le lettere del titolo, e qui notate di come la pellicola sia in partenza pessimistica perché lo scienziato è vivo, o forse non ancora del tutto morto, sono quelle che lui scrive immaginariamente al figlio perduto. Gli altri personaggi nonostante abbiano una caratterizzazione minima che li rende quasi indistinguibili nella penombra in cui sono rifugiati, ad esempio si sa al massimo che uno è il figlio di un altro, riescono a trasmettere un’inquietudine tangibile, e quando uno di loro si suicida dopo un discorso di fronte ai compagni, beh, la mia gola per un attimo si è ben bene annodata.
Esteticamente c’è qualche perplessità sulle immagini di repertorio che riprendono alcuni decolli missilistici con relative esplosioni che non si amalgamano granché con lo scenario maggiormente ripreso, tuttavia questi inserti suggeriscono una strana forma di nostalgia cinefila che anche in passato mi è capitato di provare laddove la presenza di alcune magagne è come legittimata dall’età che si porta appresso, e invece di pesare sul listino dei punti di debolezza ne aumenta il fascino complessivo.
Ad ogni modo le scenografie di Lopushansky hanno un forte impatto visivo e credo che attribuirgli lo status di visionario non sia una bestemmia; l’iniziale carrellata all’indietro che mostra l’alcova dei sopravvissuti, la biblioteca allagata o l’ospedale con le urla dei bambini sono lì a testimoniare la sua creatività. Vieppiù che anche la scelta dei costumi è azzeccata con quelle maschere antigas che sembrano la rielaborazione di quelle de L’Eternauta, imprescindibile capolavoro del fumetto che pur parlando di un’invasione aliena ha più di un punto in comune con questo film. E poi non nascondo una certa angoscia nell’udire i respiri filtrati dalle suddette apparecchiature.
Se tutto questo non bastasse ad abbattere il vostro inguaribile ottimismo, ci pensa il finale sublime che avrebbe fatto la fortuna di un film come The Road (2009).
Lo scienziato in punto di morte afferma di fronte a dei bambini – o meglio, è uno di loro che ce lo riferisce quasi ci trovassimo di fronte ad un passaggio di testimone – che finché gli esseri umani cammineranno ci sarà speranza. Subito dopo vediamo otto bimbi con tanto di maschere inerpicarsi su per una salita avvolta dalla nebbia. Intorno non c’è niente, sono soli. E allora mi chiedo: dov’è la speranza?
Postilla.
Non ho trovato informazioni a riguardo, ma credo, anzi ne sono quasi certo, che il film non sia mai stato distribuito in paesi anglofoni e per questo motivo il titolo che vedete lassù è una semplice traduzione. Idem per la locandina che mi pare abbia ben poco di ufficiale.
Quando si presentano queste situazioni preferisco lasciare tutto in originale, stavolta farò un’eccezione.
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