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DEADBURGER, Vittorio Nistri

Creato il 09 dicembre 2013 da The New Noise @TheNewNoiseIt

Deadburger

È raro avere a che fare con lavori come La Fisica Delle Nuvole, anche perché di solito le pubblicazioni hanno tutte un formato piuttosto standard, e scriverne diventa più veloce e automatico (in genere prima di procedere ascolto almeno tre/quattro volte il disco). Ora, per i Deadburger non è andata cosi, visto che ho dovuto prendermi del tempo – era proprio necessario – e di conseguenza ho avuto la possibilità di confrontarmi più da vicino con la scrittura dei pezzi e di capire come sono stati eseguiti. Mi viene anche da pensare: quanti musicisti oggi possono vantare tanta certosina precisione? Ben pochi. Ma non è una critica alle tante uscite che ci circondano, è solo la logica conseguenza di un ragionamento che a volte molti di noi si dimenticano di fare: abbiamo mai pensato al lavoro che ci vuole per approntare un’uscita discografica? Sappiamo quanto tempo, sudore e passione ci vogliono per prepararla? Il discorso si potrebbe allargare anche al nostro campo, ma lasciamo stare, non è questa la sede giusta per affrontarlo, solo mi preme sottolineare che le cose hanno un valore, al quale è giusto dare risalto. Quindi, dopo averne scritto, mi è sembrato il minimo approfondire in questa lunga intervista il discorso con la band stessa. Per l’occasione il portavoce è stato il tastierista e addetto all’elettronica Vittorio Nistri.

Ciao Vittorio. Ti confesso, senza fare troppi preamboli, che non è stato facile entrare nel mondo de La Fisica Delle Nuvole. Mi spiego meglio: è un lavoro davvero complesso e mi ci sono voluti almeno un paio di mesi per apprezzarlo nella sua interezza e per scrivere la recensione. Insomma, mi avete messo in difficoltà…

Vittorio Nistri: Allora, per prima cosa, ti dobbiamo ringraziare per avere dedicato al nostro lavoro il giusto tempo di “decantazione”!

È vero, è musica da approcciare senza fretta, anche se io e i miei compagni di gruppo non la vediamo come un’opera “difficile”. Caso mai, è un’opera “densa”. Ci abbiamo riversato cinque anni di suoni e sperimentazioni. È tutto quello che, in questo lungo lasso di tempo, si è verificato nelle nostre vite. Ciò che viviamo si riflette nella musica che facciamo.Proprio perché dentro c’è molto, crediamo che questo lavoro si presti a una “scoperta” graduale. Ci piace pensare che, se qualcuno avrà voglia di dedicargli più di un ascolto, potrà trovarci ogni volta qualcosa di nuovo. È un po’ una scommessa suicida, perché sappiamo tutti che in questo momento il “mercato”, o quel che ne resta, sembra andare in direzione opposta.

Nel romanzo “Girlfriend In A Coma” di Douglas Coupland la protagonista, risvegliatasi dopo vent’anni, si domanda: “Mi dite che ne è stato del tempo? Non ne ha più nessuno. Com’è questa storia?”. I ritmi delle nostre vite sono diventati velocissimi. A volte andare di fretta è oggettivamente necessario, ma spesso no, non lo sarebbe affatto, però corriamo lo stesso. E siamo sempre in affanno di tempo. Gli stimoli si moltiplicano vertiginosamente, mentre l’approfondimento diminuisce in misura speculare. È un fenomeno ben visibile anche in ambito musicale. Il download gratuito sta creando una nuova tipologia di fruizione musicale, paragonabile a uno “skip” perenne: si salta da un singolo brano del musicista X a un singolo brano del musicista Y. “Non c’è più tempo” per ascoltare un disco per intero. E se qualcosa non piace al primissimo approccio, si passa subito a qualcos’altro, perché appunto “non c’è più tempo” per un secondo ascolto. Oggi a un musicista conviene presentarsi con una proposta unidimensionale, che possa essere inquadrata – file under qualcosa – in pochi minuti. Ed infatti è questo il trend prevalente (anche se, come ovvio e grazie al cielo, qualche meravigliosa eccezione c’è sempre).

Il punto è che questo trend si attaglia poco a chi cerca una qualche rispondenza tra la musica che fa e la vita che vive. Perché le nostre esistenze, di solito, non sono unidimensionali: sono un dannato casino! Sfaccettate, animate da sentimenti e pulsioni diverse, non di rado contraddittorie. Grovigli inestricabili di aspetti positivi e negativi.

Probabilmente è per questo che, come ascoltatore prima ancora che come musicista, preferisco musiche che non siano tutto bianco o tutto nero. Magari all’inizio richiedono un minimo di attenzione in più, ma poi ricompensano. Per me, almeno, ha funzionato così. La maggior parte degli album che oggi annovero tra i miei preferiti al primo impatto mi aveva lasciato perplesso, salvo poi appassionarmi sempre di più ad ogni ascolto successivo. Fino a mettermi radici dentro e a non uscirne più.

Torniamo indietro nel tempo e facciamo un po’ d’ordine nella storia della band: chi sono i componenti, quando avete iniziato e con quali intenzioni eravate partiti…

Questa è l’era dell’Instabilità, e i Deadburger non fanno eccezione. Siamo l’instabilità impersonificata! Siamo partiti come duo, poi siamo diventati un quintetto, ma nella Fisica Delle Nuvole ci siamo ritrovati come ottetto. E già oggi, a due mesi dall’uscita del box, stiamo diventando altro. Dall’uscita del nostro terzo album (“S.t.0.r.1.e”, 2003) esiste nella formazione una sorta di “zoccolo duro”, formato da Alessandro Casini (chitarrista e grafico), Simone Tilli (cantante e molto altro), Carlo Sciannameo (basso) e io (tastiere, elettronica). Numerosi altri musicisti si sono uniti a questo nucleo per determinati progetti o periodi. Altri si uniranno in futuro, e magari diventeranno anch’essi “zoccolo duro”. La nostra è una band la cui formazione, a seconda del progetto in corso e/o delle possibilità contingenti, si allarga o si contrae come un mantice. L’unica cosa certa è che chiunque viene a far parte della formazione, diventa – per tutto il tempo in cui rimane – un Deadburger a tutti gli effetti.

Nel realizzare questo lavoro, allo “zoccolo duro” si sono uniti Pino Gulli (ex CSI) alla batteria, Massimo Giannini alle percussioni, Giulia Nuti alla viola e Irene Orrigo al flauto e voce; e ciascuno di loro ha portato la propria personalità, e molti spunti creativi, contribuendo in modo importante al risultato finale. Attualmente non è più attiva nel gruppo, a seguito di una scelta di vita, Irene, che si è trasferita a Berlino: i rapporti tra di noi sono comunque splendidi, ed è sicuramente possibile che in futuro le nostre strade tornino ad incrociarsi.

La band, nel frattempo, sta già sperimentando altre combinazioni. Il mese scorso abbiamo fatto un bel concerto con il determinante apporto di Claudia Cancellotti al violino. E da qualche giorno – notizia recentissima – è entrato in formazione Antonio Inserillo come batterista (è uno che suona bene qualunque cosa, dal basso alla chitarra alle tastiere). Per quanto possano cambiare le formazioni, rimane costante la direzione del gruppo. Mi chiedi con quali intenzioni eravamo partiti. Beh, fin dai nostri esordi l’idea che avevamo in mente era quella di provare a unire rock e sperimentazione. Ed è quello che cerchiamo di fare tuttora.

Deadburger

Rispetto al passato mi sembra che abbiate cambiato direzione e stile musicale…

Io credo che siamo rimasti “fedeli alla linea”. Proprio perché la linea è quella di mettere insieme rock e sperimentazione, ogni nostro lavoro discografico è in qualche modo differente da quanto avevamo fatto prima. Nel momento in cui ci mettessimo a rifare cose che abbiamo già fatto, significherebbe che abbiamo smesso di sperimentare. La Fisica Delle Nuvole è un box con tre album, e ciascuno di essi propone un modo differente di coniugare rock e sperimentazione. E tutti e tre lo fanno in modo diverso rispetto ai nostri album passati o futuri. Il prossimo, per dire, avrà un sound ultra-percussivo inedito, tutto imperniato sulla doppia batteria. A rimanere costanti sono le coordinate emotive. Non sentirai mai da noi che so, un brano lounge, o un reggae da spiaggia, o un doom metal con testo necrofilo, perché la nostra indole, proprio come persone, è tutt’altra.

Siete molto attivi in questo periodo, ma c’è stato un tempo dove avevate diradato sempre più le vostre produzioni, vero? C’erano altri impegni, magari anche di tipo extra-musicale?

Capisco quello che intendi dire. Stando ai ritmi delle nostre “uscite pubbliche” possiamo dare l’impressione di un disturbo bipolare della personalità (la “manic depression” cantata da Hendrix), di quelli che ti fanno alternare momenti di iperattività ad altri di totale immobilismo. Ma sarebbe un’impressione non rispondente alla realtà, perché noi non siamo mai “immobili”. Non finché non ci scioglieremo, o la vita non ci staccherà la spina. Certo, a volte le problematiche extra-musicali (che non mancano) possono rallentare un po’ l’attività del gruppo ma, almeno fino ad oggi, non ci hanno mai fermato.

Anche nei periodi in cui non pubblichiamo dischi e non facciamo concerti, noi suoniamo sempre. Facciamo musica nel nostro home studio o in sala prove, tutti insieme, o individualmente, o in piccoli gruppi. Lavoriamo su materiale a volte destinato ai Deadburger e a volte no (tutti i membri del Panino di Morto portano avanti anche progetti individuali, e spesso partecipano a quelli altrui). Incontriamo altri musicisti, studiamo nuovi strumenti…

Quella di diradare le uscite è una precisa scelta di “ecologia sonora”. Hai notato che di album se ne vendono sempre di meno, ma se ne pubblicano sempre più? Questo paradosso trova la sua spiegazione nella evoluzione digitale delle tecnologie di registrazione. Un tempo incidere un album richiedeva costi ingenti, oggi, con l’hard disk recording, bastano un computer, una scheda audio e un microfono, e chiunque fa il suo disco nella camera da letto. Una volta tanto la democrazia ha preso il posto dell’oligarchia, il che è meraviglioso. Però, come tutte le medaglie, ha un lato in ombra. E il suo lato negativo è il proliferare forsennato delle uscite. Ogni settimana, ogni giorno, ogni ora, fiumi di nuovi album vanno a collassare gli uni sugli altri. Parecchi tra questi sembrano non avere altra ragione di esistere che consentire a chi li ha fatti di cercare qualche concerto o regalare una copia agli amici per Natale. Di solito sono suonati decentemente (oggi il livello tecnico medio si è innalzato, e poi i software aiutano a correggere stonature e imprecisioni) però sembrano non essersi posti altro obiettivo che quello, appunto, di suonare decentemente. Spesso danno l’idea di essere stati fatti senza nemmeno “sporcarsi le mani” (cioè, con poca fatica). Perché sbattersi, perché sforzarsi, se tanto i dischi non si vendono più? I Deadburger, da questo meccanismo di polluzione sonica incontrollata, si sono tirati fuori da un pezzo. Con tutti i pro e i contro che una scelta come la nostra comporta. Noi ci sbattiamo tanto, ma pubblichiamo pochissime cose. Lasciamo ai nostri album il tempo di crescere un po’ per volta, lavorandoci con costanza, settimana dopo settimana, con l’orgoglio di un piccolo artigiano che cerca di fare meglio che può quel che sta creando. Ci può volere un anno come ce ne possono volere cinque, nemmeno noi lo sappiamo, i nostri tempi sono inconoscibili a noi stessi!

È da questa scelta che hanno origine i nostri ritmi bipolari. I periodi di “assenza” sono quelli dedicati a mettere a punto un progetto. I periodi in cui “usciamo allo scoperto” (con dischi, concerti, presenza sui social network, e quant’altro) sono quelli in cui riteniamo che un progetto sia arrivato al suo giusto stadio di maturazione.

Vi piace coinvolgere altri musicisti (lo avete già fatto in precedenza) anche piuttosto diversi tra loro, alludo in particolare al disco La Fisica Delle Nuvole?

Sì, ci piace moltissimo collaborare con altri musicisti. Tanto più che abbiamo avuto la gioia di farlo con alcuni degli artisti che più ci apprezziamo in assoluto. E sarà così anche per il prossimo lavoro, lo abbiamo già proposto a tre musicisti che apprezziamo enormemente, e tutti e tre ci hanno confermato la loro adesione, cosa la cui sola idea ci fa prorompere in un triplo “wow!”.

Le nostre collaborazioni sono sempre mirate. Quando lavoriamo su un brano, e ci rendiamo conto che per raggiungere il risultato che abbiamo in mente manca un qualcosa che noi, con le nostre forze, non siamo in grado di tirare fuori, ci mettiamo a pensare a chi sarebbe la persona “ideale” per apportare quel qualcosa. In questa fase ragioniamo non da musicisti, ma da ascoltatori, da appassionati, da “malati” di musica. Pensiamo ai dischi che recentemente abbiamo amato di più, e diciamo: “ecco, quella è la voce!” (o lo strumento a fiato, o il batterista, o quant’altro ci vorrebbe per completare il brano). A quel punto proviamo a contattare quell’artista. Gli mandiamo non solo il demo, ma anche una spiegazione completa del perché ci stiamo rivolgendo a lui invece che ad altri. Gli raccontiamo del nostro progetto, di cosa vorrebbe esprimere quel determinato brano, e del perché crediamo che sarebbe perfetto il suo tocco e la sua sensibilità. Poi ci mettiamo in attesa. Se l’artista non ci risponde, non insistiamo mai. Ma il più delle volte la risposta arriva, ed è positiva, e ogni volta ne rimaniamo sorpresi noi per primi!

Vi siete incontrati di persona con tutti o avete lavorato anche a distanza?

Quando è possibile preferiamo l’incontro di persona. È stato così per esempio con Enrico Gabrielli, Paolo Benvegnù, Andrea e Gionata Costa dei Quintorigo, Roy Paci, UnePassante, Jacopo Andreini e tanti altri. E ci ha consentito di scoprire che dietro a grandi musicisti ci sono spesso persone splendide. Molte volte la collaborazione implica qualche mese di attesa, perché cerchiamo di abbinare la session Deadburger con una data in cui il musicista, per un concerto o per altri impegni, venga a trovarsi dalle nostre parti. In alcuni casi, come con Lalli o con Vincenzo Vasi, non è stato possibile incontrarsi, e la collaborazione è avvenuta tramite scambio di file. Ma abbiamo comunque cercato di instaurare un rapporto il più possibile personale, tramite lettere e/o telefonate che in qualche modo hanno svolto la funzione della chiacchierata faccia a faccia.

Come è stato l’approccio con Lalli?

La collaborazione con lei risale a parecchi anni fa. Io e Alessandro, il chitarrista, scambiammo qualche parola con Marinella dopo un suo concerto in un centro sociale fiorentino. Non saprei dirti, tra noi e lei, chi fu più timido in quell’occasione! Qualche tempo dopo le inviammo una lettera per proporle di recitare – sopra nostre composizioni – alcune poesie di Tony Vivona per uno spettacolo teatrale di cui Tony era il regista. Pochi giorni dopo mi trovai una busta nella cassetta delle lettere. Lei, con la massima semplicità, ci aveva inviato le sue tracce vocali, registrate su una cassetta. Emozionanti, come tutto quello che fa. A distanza di anni abbiamo recuperato quelle tracce, le abbiamo restaurate, e le abbiamo utilizzate. Amiamo le cose che fa, in tutte le sue incarnazioni, dai Franti agli Ishi, dagli Howth Castle ai dischi solisti per Il Manifesto, fino agli attuali Elia. In quest’ultimo anno abbiamo provato più volte a ricontattarla, ma è una persona molto riservata, deliberatamente assente da qualunque social network. Solo pochi giorni fa siamo riusciti ad avere il suo nuovo indirizzo, e le abbiamo potuto spedire il box. Speriamo di avere l’occasione di incontrarla ancora, anche considerando che recentemente ha lasciato il Piemonte e si è trasferita proprio in Toscana.

Deadburger - Alessandro Casini

Io trovo che la collaborazione, per esempio, con Paolo Benvegnù sia particolarmente riuscita (penso a come è stato capace di integrarsi nel lavoro), e ve lo dice uno che non segue, e non ama più di tanto, un certo tipo di “cantautorato” italiano.

Paolo Benvegnù per noi è un mito. È presente in tutti i nostri ultimi dischi: “S.t.0.r.1.e”, “C’è Ancora Vita Su Marte”, e “La Fisica Delle Nuvole”. Musicista di bravura clamorosa, eppure modesto come pochi altri, una persona fantastica per la quale spendo, con sincerità e convinzione, la parola “amico”.  Il suo ruolo nei Deadburger è quello di Mr Wolf, “l’uomo che risolve i problemi”. Premetto che reputo Simone, il nostro cantante, la voce perfetta per i Deadburger, oltre che un motore creativo della band. Tuttavia può capitare che, arrivato al termine delle registrazioni di un disco, anche un cantante super come lui si renda conto, riascoltando le canzoni tutte di seguito, che in una o due di esse l’interpretazione vocale risulta meno efficace rispetto alle altre, per via di una tonalità non congeniale, o di un’atmosfera non venuta come sarebbe stata nelle intenzioni. Ecco, in questi casi ci rivolgiamo a Paolo/Mr Wolf, e lui, con una immediatezza e una semplicità che ci lasciano ogni volta a bocca aperta, trova sempre la soluzione giusta per quei brani. Quanto al cantautorato italiano contemporaneo che dici di non seguire particolarmente, beh, non è nemmeno esattamente la nostra tazza di the, come si può intuire dalle nostre scelte sonore. Ma Benvegnù è fuori dal coro. Per uno come lui mi sembra limitativa la stessa definizione di “cantautore”, termine che, in gran parte dei casi, evoca un mondo sonoro facile, fatto di giri di accordi lineari, trovati su una chitarra acustica o un piano, e poi rivestiti con arrangiamenti più o meno ricchi ma sempre rigorosamente confinati ad una funzione di background. Ecco, la sua musica è tutta un’altra cosa, con intrecci strumentali avvincenti e arrangiamenti creativi. Roba da band con i fiocchi, lontanissima dal cliché “uomo-solitario-con-la-chitarra-in-mano”. Non a caso nei concerti dice “noi siamo i Paolo Benvegnù”, ribadendo che la sua è una proposta musicale da gruppo più che da cantautore. La presentazione di Hermann che fece al Viper di Firenze, con una formazione ampliata da fiati e arrangiamenti degni della miglior Canterbury, è stato il miglior concerto di una band italiana che io abbia visto negli ultimi anni. E poi, cazzo, ha una voce fantastica. Vorrei invitare i lettori di The New Noise che non lo conoscessero ad ascoltare un brano come “La Schiena”: io la trovo una performance vocale da brividi, degna del miglior Peter Hammill.

Sono curioso di avere una tua opinione sui social network e in generale sul modo di comunicare oggi: molti musicisti e addetti ai lavori li utilizzano.

Abbiamo sempre curato molto, e lo facciamo tuttora, il website del gruppo (anche perché Alex, il chitarrista, è un web designer per professione). Ma sappiamo tutti che la comunicazione si sta spostando dai siti ai social.

Come per tanti gruppi, il nostro primo social fu MySpace. All’inizio fu entusiasmante: arrivammo a formare un network di spiriti affini, con i quali ci scambiavamo idee e input. Poi però scoppiò il boom di MySpace come veicolo pubblicitario “à la page” e quel che c’era di buono fu sepolto sotto l’overdose di autopromozioni onanistiche di cani e porci. Una noia mortale! Secondo me fu questo ultra-spamming la principale causa del suo rapido declino, prima ancora della lentezza di navigazione o dell’ascesa di Zuckerberg-land.

Con l’uscita della Fisica Delle Nuvole ci siamo attivati sul fronte dei vari Facebook, Soundcloud, Bandcamp. Le informazioni più complete restano quelle presenti su www.deadburger.it, ma la maggior parte dei contatti passa da Facebook. Nessun dubbio che in questo momento sia lo strumento di comunicazione dominante, quasi il “pensiero unico”.

Noi cerchiamo di farne un uso sensato: postiamo uno status solo quando c’è qualcosa che ci sembra valga la pena di comunicare, e ci rifiutiamo di “barare”, nel senso che non ricorreremo mai a gonfiaggi artificiosi del numero degli amici. Come sai, basta investire qualche spicciolo nei servizi a pagamento tipo “ottieni altri ‘mi piace’ per otto euro al giorno”, per consentire a una band di esibire diecimila amici (che non sanno neppure chi è quella band, e non glie ne potrebbe fregare di meno). Noi preferiamo poche centinaia di amici, ma reali. È sempre l’utopia della community, come era MySpace ai suoi inizi, sperando che il futuro non riservi a Facebook la medesima fine, magari tra cinque anni qualche altro hype avrà preso il suo posto. In tutti i social sono presenti una valenza di strumento di comunicazione e una di veicolo pubblicitario. È un equilibrio delicato, perché se la seconda funzione dilaga sulla prima, scatta la disaffezione. E poi c’è un problema per certi versi analogo a quello della proliferazione incontrollata delle uscite discografiche. È bellissimo che su questi ognuno abbia la possibilità di dire la sua, ma tocchiamo tutti con mano l’altro lato della medaglia: i milioni di status che non hanno assolutamente niente da dire (un rumore di fondo costante, come un acufeno telematico) e l’elevata incidenza percentuale di affermazioni “di pancia”, buttate giù di getto e immediatamente pubblicate senza concedersi il tempo non dico per riflettere, ma neppure per rileggere. Molti ormai danno più peso alla velocità della comunicazione che non al suo contenuto. In futuro i 140 caratteri di Twitter, e il pensiero binario “mi piace/non mi piace” di Facebook, verranno studiati sui libri di antropologia come il perfetto simbolo di un’era ossessionata dalla velocità.

Potrei aggiungere che il culto della velocità stessa è funzionale a precise dinamiche economiche (humus ideale per stimolare il consumo di bisogni indotti) e politiche (depotenziamento dell’antagonismo), ma sarebbe un discorso troppo lungo da affrontare in questa sede.

Mi interessa sapere se leggete webmagazine e comprate riviste cartacee. Fatemi qualche nome…

A questa domanda rispondo a titolo personale, perché ogni membro del gruppo ha approcci diversi alla lettura. Io compro ogni mese tre/quattro riviste di musica: Blow Up (forse la più vicina ai miei gusti, perche è quella che dedica il maggior spazio al settore “altri suoni/avant/impro” e affini), Rockerilla, Rumore e Mucchio Selvaggio. Le ultime due stanno attualmente attraversando una fase di trasformazione, troppo recente per esprimere giudizi. Certo, mi è dispiaciuta la fuoriuscita da Rumore di Vittore Baroni. Quanto al Mucchio, mi hanno spiazzato gli avvenimenti recenti, in una rivista che credevo di conoscere da una vita.

Seguo anche numerose webzine. La modalità di fruizione è diversa. Quando compro una rivista cartacea, un po’ per volta me la sfoglio tutta (anche se poi, ovviamente, leggo solo le parti che mi hanno attratto o incuriosito). Nelle webzine invece vado a cercarmi direttamente la recensione o l’intervista di artisti che mi interessano in modo particolare. Lo so che probabilmente il futuro vedrà il tracollo delle riviste da edicola a favore di quelle telematiche, ma confesso di amare ancora la carta, la copia fisica da tenere sulla scrivania o accanto al comodino e magari anche in bagno. Non tanto per una questione di qualità (tra quelle italiane ne ho individuate almeno quattro o cinque che mi sembrano valide e ben fatte quanto una rivista da edicola), ma proprio per la modalità di fruizione. L’oggetto fisico mi stimola a una maggiore concentrazione e il polpastrello che scivola su cellulosa e inchiostro mi dà un piacere sottilmente diverso rispetto a scorrere lo schermo di un tablet, forse perché di fronte al computer ci sto già molte ore al giorno per lavoro. È come per i sintetizzatori: quelli virtuali sono comodissimi, però mi diverte di più operare sulle manopole e i cursori di quelli reali.

Aggiungo che le webzine che preferisco sono quelle che trattano argomenti poco presenti sulla carta stampata, come le “indagini sul territorio”, o gli approfondimenti su proposte “off”. Per esempio, non sapevo niente di Ambient-Noise Session, che pure sono anch’essi toscani, ho scoperto della loro esistenza grazie a The New Noise.

Deadburger - Vittorio Nistri

Ribadisco – lo feci già proprio col collettivo Ambient-Noise Session – che la Toscana per me rimane una regione particolarmente legata alla musica. Mi spieghi come mai secondo te da quelle parti questa passione s’è sviluppata più che in altre? Alludo a band ed etichette storiche che immagino conosci benissimo.

In Toscana c’è sempre stato, e c’è tuttora, un bel fermento, ma non saprei se dipenda da particolari caratteristiche della regione. Credo che sia non dissimile da quello di altre regioni. Al di là degli hype mediatici, che volta per volta si focalizzano su una “scena” cittadina (Pordenone, Bologna, Firenze….) o tematica, credo che un po’ in tutte le città ci siano cantine che tremano sotto i decibel, e musicisti che rubano ore al sonno e agli affetti per sfinirsi sui loro strumenti. Per esempio, negli stessi anni che (giustamente) vengono ricordati per il successo delle etichette fiorentine Contempo e I.R.A. Records, a Torino c’erano i Franti e ad Aosta i Kina, mentre a Roma nascevano i Gronge.

Oggi la Toscana sembra attirare qualche riflettore in meno rispetto agli Ottanta, ma c’è sempre tanta musica nel sottosuolo (di tutti i tipi: dalle affascinanti “storture” di King Of The Opera al cantautorato elettronico degli UnePassante, dal rock impressionista dei Blue Willa alla psichedelia colta dei Walking The Cow,). E anche sopra il suolo: vedi gli ampi riscontri ottenuti da Zen Circus/Appino e Baustelle.

Avete presentato La Fisica Delle Nuvole presso una galleria d’arte fiorentina (lo Studio Rosai), e non dimentichiamo che il lavoro in questione in realtà nasce per il teatro. In poche parole non è il classico disco di rock e basta, dico bene?

Conosciamo persone che hanno fatto della musica la loro “riserva indiana”. Quando si ritrovano a suonare, lasciano fuori della porta la vita di tutti i giorni, con le sue frustrazioni, ansie, problemi lavorativi e familiari. A seconda della decade prescelta per il loro personale “a spasso nel tempo”, indossano (fisicamente o mentalmente) abiti anni Sessanta o Settanta od Ottanta, e suonano musica di altre epoche, altri mondi, con strumenti vintage e fervore filologico. Per quel paio d’ore in sala prova o sul palco, il mondo ritorna perfetto, semplice, comprensibile senza fatica. Poi, terminata la celebrazione del loro Pow Wow, lasciano la riserva e ritornano alle fregature della realtà di tutti i giorni. Per certi versi li invidiamo. Noi non siamo portati per questo tipo di transfert. Quello che siamo lo trasportiamo pari pari in quel che suoniamo.

C’è una frase di Giuliano Mesa che mi ritrovo a citare spesso, perché la condivido in pieno. Mesa, col quale abbiamo avuto il piacere di collaborare anni fa, è stato uno dei più grandi poeti italiani recenti, anche se poco noto, a causa del suo carattere schivo e antipresenzialista, e della sua indole nomade. È scomparso nel 2011. Alla domanda “perché scrivi poesie?”, rispose: “forse, perché è il mio modo di sapere”. Ecco, mi piace pensare che per i Deadburger fare musica abbia la stessa funzione. È un qualcosa che ci diverte, certo, che ci dà piacere, ma è anche altro. Un modo per capire meglio noi stessi e la realtà in cui viviamo. Non ci riesce proprio considerare la musica come una “riserva” separata dalla realtà. Per noi fa parte della realtà, e come tale può benissimo lambire qualunque altro aspetto della realtà stessa. Politica, società, tecnologia, arte, tutto può interconnettersi, non per un giochino citazionista, ma proprio perché l’esistenza è un continuum, e non una sequela di compartimenti stagni.

I Deadburger sono un gruppo, e il nostro focus principale è, e resterà sempre, la musica. Però non sarà mai l’unico focus e mai lo è stato. Già il nostro album di esordio, nel 1997, aveva una traccia rom fluviale (… credo che sia stato il primo “enhanced cd” di una band indipendente italiana), dove, prendendo spunto dagli argomenti delle singole canzoni, ci addentravamo in ambiti extra-musicali (video, “controinformazione”, letteratura, “cultura antagonista”…).

Nella Fisica Delle Nuvole trovi l’illustrazione (il grande Paolo Bacilieri), il teatro (come giustamente hai ricordato, i tre album sviluppano composizioni originariamente approntate per spettacoli teatrali), la letteratura (Michel Houellebecq, Kurt Vonnegut, Giorgio Saviane, Antonio Moresco). E nel booklet trovi quattro numeri di una rivista immaginaria, il Poor Robot’s Almanack, dove vengono fatte collidere – in quello che può sembrare un delirio, ma non lo è – schegge delle provenienze più disparate (politica, tecnologia, scienza, arte, storia… il tutto costellato da un ampio assortimento di “weirdos” che sembrano partoriti dalla fantasia di uno scrittore sotto allucinogeni, e invece sono tutti rigorosamente presi dalla realtà).

Fabio Norcini, il curatore dello Studio Rosai (galleria d’arte contemporanea a Firenze, in Oltrarno) è uno refrattario quanto noi ai compartimenti stagni. É stata sua l’idea di allestire nella galleria una mostra monografica (che ha definito “evento multiverso”) sulla Fisica Delle Nuvole. Alle pareti c’erano gli originali dell’artwork, insieme ad altri disegni di Paolo Bacilieri di argomento musicale, e a stampe giganti del Poor Robot’s Almanack. Inoltre: proiezioni su grande schermo dei nostri video in animazione, e un nostro concerto in versione musica da camera psichedelica.

La mostra, per qualche inspiegabile congiunzione di astri, è stata un successo, ben oltre quello che ci saremmo aspettati. Ci siamo divertiti moltissimo, e – dal momento che il proprietario della galleria possiede anche la trattoria sottostante – abbiamo beneficiato pure di un’ospitalità gastronomica sopraffina!

Ci sono giovani musicisti che seguite e che vi piacciono in modo particolare?

Anche qua rispondo a titolo personale, giacché ciascuno dei Deadburger ti stilerebbe una lista diversa. Tra i nomi italiani che ho scoperto recentemente mi hanno colpito Claudio Milano (il suo doppio-doppio uscito quest’anno a nome InSonar/NichelOdeon è sbalorditivo), Butcher Mind Collapse (fuoriclasse rock/noise), Cabeki. Amo inoltre molti dei nomi che ho citato nella risposta di prima sulla scena toscana, e altri ancora. Se poi togliamo la discriminante “anagrafica”, ci sono musicisti che sono sulla piazza da anni, ma le cui proposte sono più fresche e coraggiose di quelle di molti altri esordienti. Per restare in Italia: mi tolgo il cappello di fronte alla fucina dei Mariposa (dalla quale sono scaturiti tanti progetti interessanti: Hobocombo, Der Maurer, Calibro 35, il cantautorato di Alessandro Fiori…) ai sommi bachi Giovanni Succi (oltre che gran musicista è un autore di testi straordinario) e Bruno Dorella (di cui apprezzo assai anche Ronin e OvO), a Cesare Basile, i Guano Padano, e potrei continuare per un pezzo.

Ora, fuori dai denti, c’è qualche band o artista (italiano o straniero) che non sopportate o che trovate sopravvalutato?

Ci sono dei tipi di proposta che, indipendentemente dal loro maggiore o minore valore artistico, mi annoiano (come certo cantautorato da cameretta, tutto pastelli e amarcord).

Mi irritano coloro che (cosa frequente in area noise/elettronica), per darsi un patentino di “maudit”, si trastullano con l’estetica della sofferenza: torture, omicidi, malattie, mutilazioni… Chissà se troverebbero ancora “estetiche” queste cose, se toccassero a loro o ai loro cari! Mi fanno cascare le braccia le dichiarazioni di chi fa vanto di usare solo strumenti vintage e registrazioni su bobina, come di chi si gloria di avere fatto un disco solo con un I-Pad. Come se fare musica buona o cattiva dipendesse dagli strumenti usati, e non da come li usi.

Trovo paraculi quei gruppi italiani che vorrebbero rendere “alternative” canzoncine pop da Radio Italia Solo Musica Italiana, mettendoci sopra testi ironici sui luoghi comuni e sulle magagne quotidiane del cosiddetto “pubblico indie” (il quale, da parte sua, spesso e volentieri abbocca all’amo). Quanto a nomi che reputo sopravvalutati, se volessi fare polemiche inutili potrei citarne a bizzeffe. Tanto più che il culto della velocità di cui parlavo prima impone – soprattutto tramite i social – un avvicendarsi di hype ininterrotto e frenetico, senza potersi più concedere il lusso di soppesare se dietro quell’hype ci sia o meno sostanza. Ma sarebbero, appunto, polemiche inutili. Non c’è bisogno di “sopportare” una musica che non ti piace, basta non ascoltarla!

Mi spiegate come avete impostato la collaborazione con Snowdonia e Goodfellas? Tra l’altro in passato avete pubblicato per altre etichette.

I Deadburger gestiscono da soli, sotto tutti gli aspetti (creativo, organizzativo, finanziario), la realizzazione dei dischi a proprio nome, fino al mastering. Una volta che il master è pronto, ci mettiamo in cerca di un partner discografico per la pubblicazione, perché non siamo una label, né avremmo mai tempo e risorse per crearne una nostra. La divisione dei ruoli tra le due etichette che hanno pubblicato La Fisica Delle Nuvole è molto semplice: Goodfellas si è occupata di stampa e distribuzione, Snowdonia dell’ufficio stampa e della promozione.

Goodfellas è essenzialmente un distributore di materiale alternativo. Credo che in questo campo, in Italia, oggi come oggi sia il n. 1. Dovunque si possa vendere un album, penso agli eroici negozi di dischi sopravvissuti ai cataloghi web tipo Amazon o Feltrinelli, Goodfellas è presente. La passione per la musica spinge Simone Fringuelli, il boss della filiale toscana di Goodfellas, a fare – sia pure in modo non continuativo – qualche uscita non solo come distributore, ma come etichetta discografica vera e propria. Ha fatto così per i Deadburger, ma anche per numerose ristampe – pubblicate sotto il marchio Spittle – della new wave e della psichedelia italiana anni Ottanta.

La Fisica Delle Nuvole è il nostro secondo lavoro a portare il marchio Goodfellas, mentre è il primo a portare quello di Snowdonia. Era un passo obbligato. Ci legano molti anni di amicizia personale, stima (… amiamo molti titoli del loro catalogo, ed io fui uno degli acquirenti del primissimo album mai uscito dalla fucina di Snowdonia, “Orchestre Meccaniche Italiane”!) e collaborazioni. Una nutrita rappresentanza deadburgeriana – Simone Tilli, Carlo Sciannameo, io e Giulia Nuti – ha partecipato all’opus magnum Balera Metropolitana dei Maisie. Io, proprio in questa settimana, ho terminato di preparare l’arrangiamento per un brano destinato a “Maledette Rockstars”, il prossimo doppio dei Maisie, che sarà un’altra bomba.

Dopo la nostra collaborazione al loro album, Cinzia e Alberto di Snowdonia ci scrissero che sarebbero stati contenti di potere avere i Deadburger in catalogo. Rispondemmo che avrebbe fatto piacere anche a noi, e promettemmo che le nostre Nuvole (alle quali, all’epoca, già stavamo lavorando) sarebbero uscite con loro. Ci sono voluti i tempi biblici che impieghiamo per finire un progetto, ma, come vedi, la promessa è stata mantenuta. E credo che anche i nostri lavori futuri porteranno il cuoricino rosso di Snowdonia.

Fra i gabbiani / fra le lamiere / fra i tulipani / fra le ciminiere / dentro al fiume / dall’acqua trasparente / fino al mare / dalla sorgente sull’asfalto delle strade deserte / o nello smalto / delle puttane più esperte. Mi piace citare il testo di “In Ogni Dove” scritto da Tony Vivona che trovo appassionato, vivo, che descrive bene il vostro modo di pensare, e che Lalli canta/declama in maniera impeccabile, incastrando perfettamente le parole tra le note, come un meccanismo ad alta precisione. Per me è stato amore al primo ascolto, per voi cosa è stato?

Sottoscrivo al 100% le tue osservazioni. Quando sentimmo la cassetta con la sua voce ci commuovemmo. Lalli aveva dato alle strofe di Tony, che hanno una metrica regolare, un ritmo irregolare che a noi non sarebbe mai venuto in mente. Senti quella pausa centrale seguita da una improvvisa accelerazione. Se ci pensi bene, è quello che succede al tuo cuore quando ti innamori!

Il ritmo e l’interpretazione sono perfetti per il testo, che parla di come, nonostante tutta la merda e le nevrosi in cui siamo immersi, i sentimenti sopravvivono. Li possiamo trovare “in ogni dove”, ma forse, in modo particolare, proprio dove non ci aspetteremmo di poterli incontrare.

Il brano è un lungo trip notturno (quasi sette minuti), che attraversa luci al neon e strade deserte, ma alla fine approda a un’alba che è una promessa di calore, e non per una questione di gradi centigradi. La parte conclusiva, con quelle marimbas alla Steve Reich e il tema di fiati, è uno dei rarissimi momenti in cui un’atmosfera dei Deadburger potrebbe essere definita “serena”.

Quali sono le prossime mosse che avete in mente? Andrete in giro a fare qualche concerto?

Stiamo preparando un set nuovo di zecca, strutturato a sandwich (una parte iniziale ed una finale di impatto frontale ed “ultra-loud”, con in mezzo una parte basata sui mezzi toni e sugli intrecci elettroacustici). Attingeremo a tutti e tre i dischi del box, con arrangiamenti inediti creati ad hoc e una formazione ancora una volta rinnovata.

Contemporaneamente, stiamo organizzando le prime session di registrazione per il seguito de La Fisica Delle Nuvole, l’album a doppia batteria che rappresenterà “l’altro lato dello specchio” (e che insieme all’ultimo verrà a costituire un dittico il cui senso completo sarà chiaro solo allora). L’album sarà probabilmente preceduto da un singolo, “Onoda Hiroo”, con allegato un dvd live. Inoltre, come sempre, stiamo lavorando a vari progetti individuali. Per quanto mi riguarda, il primo ad uscire dovrebbe essere “Ossi”, un nuovo micro-gruppo in duo con Simone Tilli, e un (non piccolo) aiuto da parte di amici come Andrea Appino e Dome La Muerte. A seguire, lo psycho-musical della Dead Freaks Society. Carlo Sciannameo in questo periodo sta portando avanti uno spettacolo teatrale (“Non Poteva Certo Finire Bene”) insieme ad Andrea Lanzini e ha registrato un album prog con i Seldon. Simone inoltre sta portando avanti il suo progetto solista (“Gualty”) e sta collaborando a Le Jardin Des Bruits, nuova idea di Tony Vivona. Il progetto principale, quello a cui dedicare più energie, rimane comunque il Panino di Morto. Ecco quello che vedo nella mia boccia di cristallo (ma potrei sbagliare, non ci sono più le divinazioni di una volta): dopo che avremo completato il dittico “MirrorBurger”, regoleremo i conti col nostro passato, ripubblicando in versione riveduta e corretta brani dei nostri primi dischi (che reputiamo ancora validi come composizioni, ma realizzati in modo non soddisfacente; oggi, con l’esperienza maturata nel frattempo, saremmo in grado di dare loro una veste molto più appropriata). E poi i Deadburger si scioglieranno e risorgeranno in un diverso contesto sonoro, e con un nuovo nome. Nome che abbiamo già in mente, tanto che è presente in un brano – ma preferisco non dire quale – de La Fisica Delle Nuvole!

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