Pochi giorni fà ho avuto l’occasione di intervistare il prof. Marco Fortis. Il prof. Fortis è il responsabile della Direzione Studi economici della Edison Spa, Vicepresidente della Fondazione Edison e Docente di economia industriale e commercio estero presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica di Milano, inoltre è consulente dell’Osservatorio economico del Ministero del commercio internazionale, ed ha presieduto la Commissione sui distretti industriali voluta dal Ministro Giulio Tremonti nel Governo Berlusconi del 2001.
Data la mole di dati e le interessantissime risposte ho deciso di dividere l’intervista in due parti, la prima qui sotto riguarda il piano del Pdl per risanare il debito pubblico italiano, la seconda, che verrà pubblicata domani, sulla stabilità finanziaria italiana rispetto a quelle degli altri Paesi membri delle’eurozona.
Dott. Fortis, le cifre proposte nel piano d’abbattimento del debito proposto dal PDL sono credibili? Perché, a detta di molti osservatori, non si ha nemmeno una chiara idea sull’ammontare del valore dei beni da vendere sul mercato.
Premetto che questo piano non l’ho potuto analizzare in modo approfondito però credo che la proposta abbia alcuni punti chiave su cui bisogna riflettere. Innanzitutto le cifre in gioco sono molto significative e che ci sia necessità di ridurre soprattutto la spesa pubblica improduttiva e gli sprechi nel nostro Paese non ci sono dubbi. Nello stesso tempo, ogni qualvolta si presentano piani di questo genere si tende a sovrastimare le capacità d’intervento reali della classe politica e di un governo precario come questo, perché l’Italia, non avendo mai un esecutivo in carica stabile per 5 anni come Spagna, Francia e Germania, non è quindi in grado d’impostare un piano a medio lungo termine.
Come siamo arrivati alla necessità di queste misure così drastiche?
Nel 2011 abbiamo affrontato una fase molto difficile, caratterizzata da una crisi di credibilità internazionale. Poi a questa è seguita una fase, quella del governo dei tecnici, con politiche molto dure che, se da una parte hanno restituito credibilità, dall’altra non ha fatto altro che applicare in maniera estremamente scolastica i dettami delle varie Commissione Europea, FMI e BCE. Questi soggetti non sono sicuramente infallibili; alcuni di essi hanno anche in parte riconosciuto, il FMI ad esempio, di aver sbagliato i calcoli sui moltiplicatori fiscali. In sostanza dopo la cura siamo peggiorati su tutti i fronti e anche se ci vengono a dire che siamo migliorati, non è così: il debito pubblico è passato dal 120,8% del 2011 al 131,4% del Pil atteso per il 2013, perché non si è sostanzialmente capito che massacrando il Pil si peggiorava il rapporto. Questo rapporto viene considerato ancora oggi il metro di riferimento per sostenere se un debito è sostenibile o meno, cosa che io contesto da anni, ma se tu vuoi stare alle regole dei mercati internazionali e nel giro di due anni fai salire il debito pubblico di quasi 11 punti percentuali di Pil, facendo crollare nello stesso tempo i consumi delle famiglie del 6% e salire drammaticamente la disoccupazione non mi sembra che hai fatto una politica sensata. No?
Le potrebbero rispondere che siamo usciti dalla procedura d’infrazione …
Sì, abbiamo ottenuto l’uscita dalla procedura d’infrazione, ma che benefici sostanziali ne abbiamo avuto? Da una parte ci è stato detto che avremmo avuto dei margini di manovra per gli investimenti, ma poi andando a vedere di che cosa si tratta, stiamo parlando di soldi spicci e comunque condizionati dal non superamento del tetto del 3%. Ma vede i problemi veri dell’Italia sono di diverso tipo.
Quali?
In primo luogo abbiamo una classe politica e varie istituzioni, come la stessa Banca d’Italia, che sarebbe ora che cominciassero a costruire una linea di comunicazione strategica ai mercati. Usciamo da vent’anni di proliferazione selvaggia di luoghi comuni in campo economico sull’Italia, diagnosi completamente fuori da qualunque senso economico vero. Ci hanno sempre detto che le imprese non sono competitive ed è per questo che manca la crescita. Questa è una cosa non vera perché le nostre imprese sono altamente competitive e sui mercati internazionali, anche nel mezzo di questa crisi economica, hanno ottenuto risultati straordinari conseguendo il più grande saldo manifatturiero nella storia del nostro Paese. Tutto ciò, anche al netto della caduta delle importazioni come qualcuno adduce per sminuire i risultati positivi.
È innegabile però che alcune cose sono da migliorare.
Certo che ci sono dei problemi di sistema Paese, lo sappiamo tutti! Se il mercato del lavoro fosse diverso, se avessimo meno burocrazia e più infrastrutture efficienti e se ci fosse meno carico fiscale su lavoratori ed imprese, avremmo risultati ancora migliori. Ma non è per quello che non c’è la crescita.
A cosa è dovuto allora?
La crescita manca perché sono 20 anni che la domanda interna arranca. Troppe tasse hanno fiaccato i redditi e i risparmi. Da 20 anni accumuliamo incessantemente avanzi primari per debellare questa piaga storica del debito pubblico. Dal 1995 al 2014, secondo la Commissione Europea, l’Italia avrà prodotto 715 miliardi di euro di surplus statale primario, compiendo uno sforzo gigantesco che nessun’altro Paese ha dovuto compiere, perché la Germania ha un surplus di circa 300 miliardi mentre Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone e Spagna sono in deficit strutturale cumulato. Questo nostro surplus è partito con le privatizzazioni che però sono un ciclo finito, non potendo durare in eterno, dopo di che invece di tagliare la spesa pubblica improduttiva dimostrando al mondo che siamo in grado di pagare gli interessi abbiamo proceduto a colpi di rasoiate di tasse, sempre tasse. Non c’è bisogno di aver fatto l’università per capire che quando un Paese continua ad applicare una mannaia di tasse di questo tipo senza incidere sulla spesa pubblica ottiene dei buoni risultati in avanzo primario ma frena l’economia. Anche oggi per surplus primario dello Stato in occidente siamo secondi solo alla Norvegia, ma il problema è che abbiamo fatalmente diminuito il potere d’acquisto delle famiglie in maniera strutturale e, di conseguenza, anche le imprese che producono per il mercato interno hanno diminuito investimenti ed assunzioni.
Questo piano di abbattimento del debito è discusso in vista dell’ingresso del Fiscal Compact, che rientra in quelli che Lei prima ha definito dettami economici imposti dalla Commissione europea e della BCE. Non crede che ci sia un rischio di svendita dei pezzi pregiati di proprietà pubblica? Soprattutto in vista del poco tempo a disposizione prima della scadenza?
Questo rischio secondo me non si pone perché questo Governo, al di là del valore individuale dei suoi membri, è politicamente impossibilitato a vendere. In ogni caso vendere gioielli come Eni non avrebbe senso, si punterà sulla vendita delle caserme ma non abbiamo nemmeno un censimento dei beni da vendere! Il piano dell’ex ministro dell’economia Vittorio Grilli era molto più modesto dal punto di vista delle dismissioni, era solo una tessera in un piano più ampio di risanamento. Ma qui il problema vero sono le assurde regole d’austerità imposte dai cervelloni dell’Unione Europea del FMI e dell’OCSE, che è l’unico motivo del perché siamo in fase di decrescita! Credo che sia ora che il nostro Governo, la Banca d’Italia, la Confindustria e l’Istat, comincino a lavorare su qualche cosa di diverso che vada a smantellare i luoghi comuni sulla situazione italiana.
Visco ha espresso la preoccupazione che in caso di successo, questo piano si trasformerebbe in un alibi per i governi per allentare il rigore di bilancio. Lei crede che esista questa possibilità?
Se si riuscisse a ridurre il debito, io non starei tanto a guardare in faccia all’operazione ma lo farei e basta. Ma io non credo che il piano del Pdl stia in piedi, fa i conti senza l’oste, se fosse così facile ridurre il debito di 400 miliardi lo avremmo già fatto da parecchio tempo.
Quindi una manovra come questa rischia di essere più una manovra di propaganda, più che un piano vero e proprio per una ripresa e una svolta del debito?
Io sono molto scettico verso i piani roboanti di tagli, bisogna spiegare come si fa. Anche i piani di dismissioni del patrimonio pubblico sarebbero molto interessanti, però mi piacerebbe che venissero portati a dibattito tutti i dettagli di questo piano perché non mi sembra ci siano grandi convergenze di opinioni. Queste idee non sono nuove, l’economista Paolo Savona lo dice da anni che bisogna vendere parte del patrimonio pubblico, il problema vero è quando ci si scontra con la realtà; prima di tutto ci sono fortissime resistenze politiche trasversali; poi non esiste neanche un censimento effettivo su ciò che si può vendere e come lo si può collocare sul mercato.
Si possono prevedere probabili contenziosi e lungaggini burocratiche tra enti locali e lo Stato?
Pensi che è stata messa una figura competente come Enrico Bondi alla Spending Review, il quale ha quasi dovuto arrendersi, perché è una giungla anche la parte della spesa oltre a quella dei beni pubblici. Se vogliamo fare uno sforzo, e dobbiamo farlo, bisogna realizzare qualcosa con una strutturazione efficace e che duri anche ai cambi di governo. Inoltre, bisogna darsi una mossa a costruire una strategia di comunicazione per il nostro Paese perché se aspettiamo le agenzie di rating, i report del fondo monetario e i report dell’Ocse accettandoli tutti come fossero oracoli non andiamo da nessuna parte. Non dico che il debito pubblico italiano non sia un problema ma c’è modo e modo di affrontarlo. Se non altro perché oggi, diversamente da vent’anni fa, anche gli altri maggiori Paesi hanno in valore assoluto debiti alti come o più del nostro, ma sembra sempre che sia solo l’Italia l’unica “pecora nera” del debito dell’Occidente avanzato.