di Michele Marsonet. Per parlare con franchezza, stupisce la meraviglia di molti commentatori di fronte alla disastrosa sconfitta dei democratici americani nelle elezioni di midterm. Tutti se l’aspettavano, ma pochi in simili proporzioni. Da più parti si pensava, in altri termini, che nonostante la grande impopolarità di Barack Obama, il “brand” democratico avrebbe retto consentendo all’attuale Presidente di condurre a termine il suo secondo mandato non diciamo con facilità, ma almeno con un certo margine di manovra.
Non è andata così, e ora sia il Senato sia la Camera risultano dominati dai repubblicani, che sono pure di gran lunga favoriti nei prossimi ballottaggi per i posti di governatore in parecchi Stati. Eppure non era così difficile prevedere il disastro, i segni si coglievano ormai da tempo facendo attenzione al dibattito politico interno negli Stati Uniti. Mai un Presidente aveva destato tante speranze e tante illusioni (con l’eccezione, forse, di John F. Kennedy), e mai la delusione per i risultati – o, meglio, i non-risultati – era stata così lampante.
Eletto sull’onda di alcuni slogan che affascinarono il mondo intero, Obama all’inizio ha saputo percorrere con abilità la via della popolarità mediatica, favorito anche da un talento oratorio che tutti gli riconoscono e che, almeno quello, è rimasto intatto. E’ bastato un anno o poco più, tuttavia, per capire che dietro gli slogan e la capacità comunicativa c’era un vuoto divenuto via via sempre più preoccupante. Una concezione irenica del ruolo dell’America nel mondo e l’assenza di una strategia globale comprensibile ha fatto il resto.
Si è forse scordato che quando il partito democratico sceglie, per la corsa alla Casa Bianca, un esponente della sua ala sinistra più radicale, il contraccolpo negativo prima o poi arriva, inevitabile. Lo stesso dicasi per i repubblicani con la loro ala destra. Con l’eccezione di Ronald Reagan il quale, però, aveva una personalità forte e sapeva dialogare fruttuosamente anche con i suoi avversari interni. Obama, al di là degli slogan, non possiede simili capacità di mediazione ed è stato in pratica emarginato dal suo stesso partito nella campagna elettorale da poco conclusa.
Altro fatto che stupisce è la tendenza di buona parte della stampa italiana a considerare il disastro elettorale democratico un segno ulteriore del tanto predetto – e in fondo auspicato – “declino USA”. I nostri giornali sono da tempo pieni di articoli in cui personaggi che si presume autorevoli danno il suddetto declino come scontato, inevitabile e, soprattutto, già in atto. A me pare invece che si tratti di un appannamento temporaneo dell’immagine statunitense a livello mondiale. Pericoloso, certo, ma per nulla definitivo. In America il Presidente non è un “primus inter pares”, una figura politica qualunque sostituibile quando e come si vuole. E Washington non è Roma.
Chi si accomoda nell’ufficio ovale della Casa Bianca incarna l’immagine dell’intera nazione, e ha poteri enormi (anche se costituzionalmente non illimitati). Ne consegue che gli USA “sono”, in un certo senso, il loro Presidente, e se costui dimostra di non essere adeguato al ruolo che ha assunto è il Paese stesso a soffrirne, come è puntualmente avvenuto negli ultimi anni. Diciamo allora che un Presidente americano può essere impopolare quanto si vuole in patria e/o all’estero, ma questo non determina un appannamento del ruolo degli Stati Uniti nel mondo se egli riesce comunque a proiettare un’immagine di forza – che incute rispetto – dimostrando di saper prendere decisioni, anche difficili, in ogni circostanza.
Il corto circuito verificatosi a Washington è dovuto proprio al fatto che Obama non è stato in grado di svolgere in modo adeguato i compiti che il suo ruolo gli impone. Di qui la meraviglia di tanti americani nello scoprire di essere guidati da un personaggio indeciso al massimo grado e senza una strategia complessiva precisa e comprensibile. Di qui, anche, i rapporti sempre più difficili con alleati storici come Israele.
Il declino americano è, insomma, un oscuramento temporaneo, purtroppo destinato a durare ancora per quasi due anni a meno di improbabili colpi d’ala del Presidente attuale. Per invertire la tendenza è sufficiente che il prossimo, non importa a quale partito appartenga, dimostri di possedere le doti necessarie per svolgere il ruolo cui prima accennavo. E dubito a tale proposito che la persona adatta sia Hillary Clinton la quale, anche se ora cerca di “smarcarsi”, è responsabile in prima persona dei tanti insuccessi della politica estera americana negli ultimi anni.
Se poi avessero ragione – e non lo credo affatto – i teorici di un definitivo declino americano, allora l’intero Occidente dovrebbe preoccuparsi sul serio. E’ un’ipotesi che fa tremare, poiché sfido chiunque a trovare una plausibile alternativa quando si parla di leadership mondiale. Non lo sono di certo i cosiddetti BRICS, e soprattutto la Cina che vuole introdurre la “rule of law” basandosi su una costituzione che ricalca in gran parte quella sovietica del 1936.
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