Il Documento di economia e finanza, abbreviato in DEF, è un voluminoso dossier che ogni anno il Governo deve presentare al Parlamento entro il 10 aprile. Descrive la politica economica del Governo e la programmazione pluriennale degli obiettivi di bilancio; non è una legge, ma costituisce un impegno politico e programmatico del Governo.
Nel DEF viene esaminata la situazione economica nazionale ed estera e vengono tracciate le proiezioni future, riportando cifre e descrizioni delle scelte politico-economiche del Governo.
Pur essendo abbastanza complesso, il DEF costituisce la ”cartina al tornasole” dell’azione di Governo; spesso i media riportano le dichiarazioni del Premier o dei ministri con delle citazioni, ma è solo andando a spulciare i numeri scritti nero su bianco nel DEF che si scopre la realtà, e talvolta è piuttosto diversa dagli slogan che abbiamo sentito.
“Diciotto miliardi di tasse in meno” così ci è stato promesso, ma se con pazienza andiamo a leggere il Documento di Economia e Finanza rilasciato dal Governo il 10 aprile troviamo una realtà diversa.
Alla pagina 32 della Sezione I – Programma di stabilità per l’Italia troviamo la Tavola III.1 dove viene riportata l’evoluzione delle entrate statali e della pressione fiscale dal 2015 al 2019.
La pressione fiscale, che ricordiamo è una misura media della tassazione rispetto al PIL in cui sono incluse le attività illegali e sommerse, è prevista pressoché invariata nel 2015, ma subisce un forte incremento a partire dall’anno successivo.
Nella prima riga, invece, è possibile osservare l’evoluzione delle entrate tributarie che passerebbero dal 30,1% del PIL nel 2014 al 31,2% dopo due anni, con un aumento che, con un PIL 2014 di 1.616 miliardi, corrisponderebbe a poco meno di 18 miliardi. Appunto, guarda caso…
Ma chi ha scritto il DEF non si dà per vinto e intitola il Focus a pagina 44: “Pressione fiscale: un profilo decrescente”. Avvinti dalla curiosità non esitiamo a leggere fino ad arrivare alla frase: “Le previsioni risentono infatti sia dei criteri di classificazione contabile della misura relativa al riconoscimento del bonus 80 euro, sia delle clausole di salvaguardia previste dalle Leggi di Stabilità 2014 e 2015, che dispongono aumenti delle aliquote di imposta e riduzioni di detrazioni e agevolazioni fiscali.”
E ancora: “Il quadro muta sostanzialmente se, in primo luogo, si opera una classificazione più corretta dal punto di vista economico del provvedimento legato agli 80 euro. Infatti, mentre ai fini della contabilità nazionale gli effetti finanziari delle minori ritenute applicate sul trattamento economico dei lavoratori dipendenti sono registrati tra le spese delle Amministrazioni pubbliche nella categoria delle prestazioni sociali, di fatto questi sgravi si traducono in una minore pressione fiscale sui redditi da lavoro dipendente. Un altro fondamentale elemento da considerare riguarda le clausole di salvaguardia.”
Non possiamo nascondere un certo imbarazzo per la disinvoltura con cui vengono distorti fatti e principi contabili:
- Il Governo si ostina a presentare il bonus degli 80 euro come una riduzione di tasse, malgrado pure l’Europa abbia cercato di far capire che non è così. Il bonus di 80 euro viene riconosciuto solo a particolari categorie di cittadini: dipendenti, non pensionati e con redditi compresi tra 8.100 e 24.000 e in misura minore fino a 26.000 euro; tutti gli altri sono esclusi indipendentemente dall’occupazione e dalla fascia sociale. Quindi non solo non è uno sgravio fiscale, in quanto diretto solo ad alcuni, ma è anche profondamente ingiusto in quanto emargina ad esempio pensionati e lavoratori autonomi, o peggio discrimina un lavoratore con moglie a carico e reddito fino a 24.000, rispetto a moglie e marito, lavoratori con reddito fino a 24.000 euro che entrambi fruiscono del bonus di 80 euro.
- Le clausole di salvaguardia sono determinate nelle leggi di stabilità e costituiscono una garanzia per la copertura delle spese; qualora gli obiettivi di bilancio non siano raggiunti esse scattano automaticamente alla data predeterminata. Queste clausole di garanzia, proprio perché automatiche, agiscono mediante un inasprimento di imposte esistenti, come l’IVA, le accise, o il venir meno di alcune detrazioni. L’aspetto curioso del Governo è che non consideri normale il venir meno di una clausola di garanzia, ma consideri il suo disinnesco come una diminuzione di tasse. La realtà è ben diversa: le clausole di garanzia avrebbero dovuto scattare perché gli obiettivi dei bilanci passati non sono stati raggiunti, il loro disinnesco non è nient’altro che un normale ribilanciamento delle spese senza copertura.
E dello stesso tenore è la scoperta del tesoretto, più tardi ribattezzato bonus per decenza: il rapporto deficit/PIL 2014 secondo gli impegni presi in autunno con Bruxelles avrebbe dovuto essere al 2,6% del PIL, fortuna ha voluto che minori spese, principalmente per interessi, contribuissero a un valore contabile del 2,5%. Ecco che quindi è spuntato questo 0,1% inaspettato, corrispondente a un miliardo e mezzo, che anziché costituire un risparmio di spesa, o meglio un abbassamento di tasse, viene sbandierato come risorsa pronta da spendere. Da quanto è stato anticipato, si tramuterà in misure di sostegno; un provvedimento che, se concepito con le medesime modalità degli 80 euro, sarà un’ulteriore misura discriminante e senza effetti tangibili sulla ripresa.
Ma di curiosità ve ne sono molte nel DEF e talvolta non si capisce davvero la natura contorta con cui sono elaborate. È il caso, ad esempio, delle proiezioni economiche (Tavola II.1 a pag. 10) in cui si traccia un cambio euro/dollaro a 1,081 per il 2015 e poi stabile a 1,068 dal 2016 al 2019, insieme a un petrolio Brent a 56,7 dollari al barile per il 2015 e poi stabile a 57,4 dal 2016 al 2019. Pur trattandosi di stime medie, anche un principiante capirebbe che con la volatilità dei mercati queste previsioni saranno da rivedere in capo a soli sei mesi.
Se si passa alla stima della disoccupazione, questa calerebbe moderatamente di uno 0,4% nel 2015, 0,5% nel 2016 e 0,4% l’anno successivo.
L’aspetto che si stenta a comprendere è come possa, in un contesto di prezzi energetici costanti e di elevata disoccupazione, aumentare l’inflazione all’1,8% già nel 2016 e contribuire a spingere il PIL nominale al 3%. È proprio qui che la visione d’insieme tende paurosamente a scricchiolare: l’Italia dopo Cipro è il Paese che nel 2014 è cresciuto meno in Europa, infatti l’anno si è chiuso con un valore negativo (-0,4%).
Per il DEF la crescita del PIL reale sarebbe dello 0,7% nel 2015, 1,3% nel 2016, 1,2% nel 2017 e poi 1,1% nel 2018-19; ma ecco che aggiungendo una buona dose di inflazione il PIL nominale arriverebbe all’1,4% nel 2015 e scatterebbe al 3% nel 2016. Si direbbe una “manna dal cielo”, visto che poi tutti i parametri (debito/PIL, Deficit, Pressione Fiscale) vengono calcolati sul PIL reale.
Tornando così al punto da cui eravamo partiti, la Tavola a pagina 44 mostra che la spesa pubblica aumenta ogni anno di più.
Come potranno mai diminuire le tasse, se la spesa pubblica non fa altro che aumentare? Forse siamo stati disattenti, forse non abbiamo compreso qualche passaggio; ma i numeri sembrano proprio mostrare una realtà diversa da quella che ci viene raccontata.