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Definizione della settimana: Deficit

Creato il 15 novembre 2014 da Capiredavverolacrisi @Capiredavvero

Si prenda una famiglia di tre persone – padre, madre e figlio piccolo – che in un mese spende più di quanto guadagnato negli stessi 30 giorni dalla coppia di genitori. Tale famiglia registrerà un “deficit” nei propri conti. Allo stesso modo lo Stato registra un “deficit” o un “disavanzo del bilancio pubblico” quando, nel corso di un anno, le uscite pubbliche (cioè le spese) sono superiori alle entrate (costituite essenzialmente da imposte e tasse).
In Italia, nel 2012, le uscite sono state superiori alle entrate per 47,6 miliardi di euro (pari al 3 per cento del Prodotto interno lordo, Pil). La somma dei deficit registrati nel susseguirsi degli anni ha fatto sì che il nostro Paese abbia oggi uno dei debiti pubblici più grandi del pianeta, oltre il 130 per cento del Pil.
Spendere più di quanto riesca a raccogliere con le imposte non è soltanto un problema contabile per lo Stato: infatti, così come la famiglia con i conti in rosso dovrà ingegnarsi per colmare la differenza tra uscite ed entrate, anche lo Stato deve continuamente operare per cercare di ridurre i buchi di bilancio annuali. Il risultato? In Italia, da anni, un’Amministrazione pubblica vorace preferisce far aumentare senza sosta le tasse su cittadini e imprese, piuttosto che ridurre il numero dei suoi costosi interventi. Non solo: sempre per colpa del deficit, l’Italia può oggi incorrere nelle sanzioni dell’Unione europea o in quelle dei cosiddetti “mercati” (che si fidano meno delle nostre capacità di tenere i conti in ordine e quindi di ripagare il debito nel lungo termine). Ridurre il disavanzo è dunque necessario e ragionevole, a patto di farlo con una strategia corretta e non invece controproducente.

Se un Governo spende in un anno più di quanto è riuscito a raccogliere tramite le imposte, i suoi conti registrano un “deficit pubblico” o “disavanzo”. Anno dopo anno, l’accumularsi di questi deficit va a costituire a sua volta il “debito pubblico”. Questo meccanismo, dal punto di vista concettuale, è lo stesso che vediamo all’opera nella vita di tutti i giorni. Si prenda una famiglia di tre persone – padre, madre e figlia piccola – che in un mese spende più di quanto guadagnato negli stessi 30 giorni dalla coppia di genitori. Ipotizziamo due stipendi per un totale di 2.000€ netti al mese, spese per 2.120€ al mese tra affitto, bollette e retta per l’asilo: a fine mese il “deficit” sarà di 120 euro. Oppure si prenda un’associazione sportiva autofinanziata che organizza eventi che costano di 10mila euro all’anno, e che però incassa negli stessi 365 giorni soltanto 5mila euro dalla raccolta fondi. Tale famiglia o tale associazione registreranno dunque un “deficit” nei loro bilanci.

Uno dei primi “effetti collaterali” della recente crisi finanziaria è stato l’aumento dei deficit dei Governi un po’ in tutto il mondo: in parte per il tentativo di alcuni Paesi di sostenere con maggiore spesa pubblica la ripresa dell’economia, in parte per la fisiologica flessione delle entrate in un momento di calo dell’attività economica.

tab deficit pilIn Italia, nel 2012, le uscite dello Stato hanno superato le entrate di 47,6 miliardi di euro, perciò il rapporto deficit/Pil è stato pari al 3,0%. Nel 2009, cioè al culmine del contagio da crisi finanziaria, lo stesso rapporto deficit/Pil arrivò nel nostro Paese al 5,3%, per poi scendere al 4,2% nel 2010 e al 3,5% nel 2011. Contabilità a parte, quali sono le conseguenze concrete di questi squilibri ripetuti?

“PIU’ DEFICIT” UGUALE PIU’ DEBITO. Innanzitutto, una sequenza di deficit genera una crescita dell’indebitamento pubblico. Infatti, come può lo Stato finanziare attività che costano più delle risorse recuperate ogni anno? Emettendo titoli di Stato, cioè chiedendo soldi in prestito ai risparmiatori nazionali e internazionali. Così la somma dei deficit registrati ogni anno, specialmente a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, ha ridotto il nostro Paese ad avere oggi uno dei debiti pubblici più grandi del pianeta, circa 2.150 miliardi di euro (oltre il 130 per cento del Pil). Proprio tale stock di debito, come noto, è una delle principali fonti di preoccupazione per gli investitori italiani e stranieri, alcuni dei quali dubitano della nostra capacità di rimborsarlo. La somma dei deficit, dunque, fa salire il debito; e non è finita qui: la crescita del debito rende più probabile la presenza di deficit negli anni successivi. Ogni anno, infatti, lo Stato deve corrispondere interessi passivi ai sottoscrittori del debito: nel 2012, per esempio, l’Italia ha speso il 5,5 per cento del Pil per pagare gli interessi ai suoi debitori, cioè cinque volte quanto ha investito in ricerca. Non a caso, oramai, si distingue tra disavanzo (o avanzo) e disavanzo (o avanzo) primario: quest’ultimo non comprende gli interessi passivi pagati ogni anno.

SBAGLIA CHI VUOLE AZZERARE IL DEFICIT CON “PIU’ TASSE”. Se indebitarsi è sempre più difficile, o meglio costoso, ridurre i deficit dovrebbe perciò diventare una priorità. Perfino in Italia, da un punto di vista retorico, si comincia ad ammetterlo. Eppure finora si è preferito colmare il gap tra entrate e uscite dello Stato facendo lievitare le prime invece che riducendo le seconde. Il risultato è una pressione fiscale in continuo aumento, al punto da diventare asfissiante per imprese e lavoratori. Questa politica ha aggravato la recessione. Un atteggiamento miope da parte della classe dirigente italiana, considerato che in questo modo anche la riduzione del deficit diventa più difficile. Infatti ogni volta che un Paese entra in recessione le imposte pagate diminuiscono, mentre i trasferimenti dallo Stato (per esempio, la Cassa integrazione in deroga) aumentano. Questi automatismi, che contribuiscono a stabilizzare l’economia, spingono il bilancio verso il deficit. In definitiva, alzare di molto le tasse per ridurre il deficit è controproducente rispetto agli stessi obiettivi di risanamento fiscale. Basterebbero queste ragioni per fare propria la frase di Wilkins Micawber, personaggio del romanzo “David Copperfield” di Charles Dickens, già finito in prigione per i debiti, che così spiega la radice delle sue disgrazie: “Reddito annuo 20 sterline, spesa annua 19 sterline e sei scellini: risultato, felicità. Reddito annuo 20 sterline, spesa annua 20 sterline e sei scellini: risultato, miseria”.

I NUOVI IMPEGNI GIURIDICI DA RISPETTARE. Tuttavia, oggi, ci sono anche motivazioni politiche e giuridiche che consiglierebbero di ridurre il deficit pubblico. L’Italia infatti è parte di una Unione economica e monetaria, l’euro per intenderci, che fissa un limite per il disavanzo pubblico al 3% in rapporto al Pil; questo tetto, presente nel Trattato di Maastricht (1992), è stato ulteriormente inasprito nel 2012 con la firma del Governo italiano in calce al Fiscal compact, accordo internazionale tra Stati europei che impone di puntare al pareggio di bilancio, cioè al deficit zero. Nell’aprile 2012, il nostro Parlamento ha approvato alcune modifiche alla Costituzione per recepire le disposizioni del Fiscal compact, e lo scorso dicembre il Senato ha varato la legge di attuazione del dettato costituzionale (legge 24 dicembre 2012, n. 243). Le disposizioni attuative entreranno in vigore dal 1° gennaio 2014: da allora, per Costituzione, dovremo azzerare la differenza tra entrate e uscite dello Stato. Decidere come procedere farà la differenza.

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