C’è stato un tempo della nostra vita, diciamo intorno ai 15-16 anni, in cui più o meno tutti (teniamo fuori dalla statistica quelli che si iscrivono ai Papa Boys per viaggiare all’estero usufrendo di tariffe convenzionate) abbiamo trovato nella sana e liberatoria bestemmia la forma più alta di opposizione all’autorità costituita. Erano tempi in cui l’acronimo PD non serviva a designare la nuova Democrazia Cristiana ma rappresentava un messaggio cifrato da infiltrare nel mezzo delle lezioni, dando poi ammiccanti colpi di gomito al compagno di banco per sottolineare la propria arguzia. Superato quel periodo, la bestemmia diventa l’extrema ratio in situazioni di insostenibile esasperazione e, se continuate a servirvene come un normalissimo intercalare nelle più svariate situazioni, è probabile che la vostra evoluzione si sia fermata ai tempi della scuola. O che suoniate nei Marduk.
Ma siccome l’essere umano è nostalgico ed orientato al passato per natura, è perfettamente lecito ritrovarsi un bestemmiatore professionista nella propria cerchia di amicizie, uno che ti fa continuamente vergognare di frequentarlo ma che ti ricorda i presunti bei tempi che non torneranno più. Glen Benton interpreta questo ruolo con la giusta discrezione: basta mettere un disco dei Deicide in cuffia ed avrete la vostra quotidiana dose di improperi contro il Creatore senza provare alcun imbarazzo. Ed io, nonostante tutto, a Glen Benton voglio sempre un gran bene perché dice sempre le cose giuste al momento giusto. Recentemente, ad esempio, è uscito fuori che il suo sogno è fare il pescatore al sole della Florida. Ora, io non sono mai stato in Florida e tutto quello che so sulla Florida l’ho imparato guardando Scarface, ma Glen Benton che gioca a fare il maestro Pyoshin col figlio Daemon non riesco proprio ad immaginarlo.
Bastard of Christ, die!
Personalmente non ho mai avuto la fortuna di intervistarlo ma ebbi modo, all’indomani della dipartita dal gruppo dei fratelli Hoffman, di discutere la questione con Steve Asheim. Ad un certo punto gli chiesi, non senza ironia, in che modo trovasse l’ispirazione per scrivere i dischi nuovi. La sua risposta – peraltro serissima – fu: “Mi siedo sul divano di casa e sfoglio vecchi album di fotografie di guerra”. Se vi siete innamorati del presidente della sezione locale di Forza Nuova, questa è la frase giusta per fare colpo.
In The Minds of Evil l’ha scritto quasi completamente Asheim, insieme al rientrante Kevin Quirion e, per dirla alla Ciccio Russo, rispetto alle ultime uscite si sente meglio Satana. Il discorso vale tanto per la produzione, meno infighettita rispetto ai precedenti capitoli, sia per i testi, già tornati su accettabili livelli di blasfemia dopo l’ignobile parentesi astiosa post-matrimoniale di Till Death Do Us Part. E insomma, non credo che occorra aggiungere altro sui pezzi perché qualsiasi uscita discografica dei Deicide si fonda su pochi, essenziali, capisaldi che lo rendono perfettamente identico ma al tempo stesso diverso da tutti quelli che lo hanno preceduto. Un po’come il cinepanettone, il nuovo dei Deicide è un appuntamento fisso, una catarsi collettiva che prescinde dall’effettivo valore dell’opera. Anzi, dirò di più, prescinde pure dall’ascolto dell’opera stessa. Per dire, io puntualmente li piazzo nelle varie classifiche di fine anno ma se dovessi citare l’ultimo loro disco che ho davvero consumato nello stereo, direi che mi fermo a Scars of the Crucifix, gli altri vanno per inerzia, tant’è che sul lettore portatile ho molti più pezzi bluegrass o di musica aymara che non canzoni dei Deicide. E neanche mi interessa tutta la polemica in stile Beautiful su Santolla e le sue croci per proteggersi dal demonio perché sono dell’idea che i Deicide siano come la Roma: non si discutono, si amano. (Matteo Ferri)